Le poesie hanno liberato il suo cuore
dai momenti drammatici della vita

Mattia Cattaneo. Il trentenne di San Paolo d’Argon racconta il suo cammino dopo la morte della mamma.

Le parole danno forma alla realtà, ai colori, alle emozioni: a volte diventano «reti abbastanza grandi da catturare il mondo e abbracciare i cieli», come scrive Jón Kalman Stefánsson. Mattia Cattaneo, 30 anni, di San Paolo d’Argon, è riuscito a trasformarle in un salvagente per attraversare un momento difficile nei lunghi anni di malattia della madre e soprattutto dopo la sua morte. «Scrivere – spiega – è una passione che mi fa sentire vivo e che ha dato un senso al mio dolore».

La malattia e la fragilità lo hanno accompagnato fin da quando era bambino: «Mia madre Nazarena – racconta – si è ammalata di sclerosi multipla nel 1992. Lei aveva poco più di trent’anni, io solo quattro e non ricordo l’esordio della malattia, anche perché lei ha sempre cercato di tenermi al sicuro e di non farmi pesare la situazione. Ho incominciato a rendermi conto di quanto stava accadendo quando avevo dodici o tredici anni. Tempo dopo, mio padre Umberto mi ha raccontato che cos’era successo. All’inizio sembrava che mia madre avvertisse sintomi banali, comuni: capogiri, vertigini, spossatezza. Gli accertamenti medici, però, avevano dato quell’esito infausto e inaspettato, sclerosi multipla, che suonava come una condanna: la ricerca ha fatto passi da gigante, ma allora non c’erano ancora a disposizione le terapie che oggi possono ritardare la progressione dei sintomi».

Nazarena lavorava come operaia in una fabbrica di agende: «Con la malattia, però – continua Mattia – ha dovuto smettere, perché le sue dita avevano perso agilità e sensibilità. Ha sempre affrontato comunque la situazione con serenità e per anni è riuscita lo stesso a occuparsi di me, di mio padre e delle faccende di casa. La situazione è peggiorata bruscamente nel 2011, quando avevo vent’anni e studiavo Scienze della Comunicazione all’università. Mia madre è stata costretta a un lungo ricovero in ospedale, perché la sclerosi aveva incominciato a intaccare la mobilità degli arti inferiori e a provocare un graduale decadimento cognitivo: dimenticava nomi, fatti e racconti». Mattia e suo padre Umberto, smarriti e addolorati, hanno cercato di tenere duro, di andare avanti come avevano sempre fatto, prendendosi cura di Nazarena a turno: «Dopo un po’, purtroppo – spiega Mattia – è diventato impossibile e con estrema sofferenza siamo stati costretti a ricoverarla nella residenza della Fondazione Carisma di via Gleno, a Bergamo. Lei aveva cinquant’anni, purtroppo questa malattia colpisce spesso persone giovani. A quel punto era diventato difficile comunicare con lei, ma ogni tanto aveva ancora qualche momento di lucidità, in cui ci riconosceva e potevamo parlarci. Si spostava su una carrozzina e bisognava spingerla per portarla in giro. Sono stati anni di lento declino, ho imparato fino in fondo sperimentandolo su di me e sui miei affetti più cari cosa porta con sé una malattia, una disabilità. Proprio per questo forse, ora nella mia attività di educatore, mi stanno così a cuore i ragazzini di cui mi occupo, con tutte le loro differenze. Mio padre lavorava, io seguivo le lezioni, ma cercavamo di starle vicino il più possibile. Dopo le lezioni portavo i libri con me nella stanza di mia madre e mi fermavo lì a studiare».

Nei corridoi della casa di riposo Mattia ha incontrato Sabrina, che adesso è la sua ragazza: «Era lì per svolgere un tirocinio per la scuola, ci siamo conosciuti così, per caso. Mi è stata molto vicina in quel periodo, la sua presenza mi ha aiutato moltissimo».

Nel 2014 la situazione di mamma Nazarena è peggiorata ancora, finché nel mese di marzo se n’è andata: «Stavo preparando la tesi per la laurea specialistica, mi dividevo tra la biblioteca e via Gleno, ma quando lei è morta volevo mollare tutto. Mi sembrava che con la sua vita fosse finita anche la mia, niente aveva più senso per me. Con l’aiuto di mio padre e di Sabrina poi ho cercato di farmi coraggio e sono riuscito a consegnare il lavoro in tempo. La mia tesi riguardava il pregiudizio in psicologia, chissà, forse scegliere questo argomento è stato un segno del destino, visto che poi ho trovato lavoro in ambito sociale. Mi sono laureato due mesi dopo la morte di mia madre, le ho dedicato il mio lavoro, ho cercato di farcela comunque proprio pensando che sarebbe stata orgogliosa di me».

È stato in quel momento che Mattia ha lasciato riemergere la sua passione per la scrittura. «Scrivere mi ha salvato dal dolore. Mi è sempre piaciuto farlo, sin dalle scuole elementari, quando partecipavo con grande entusiasmo al giornalino di classe». Quando sua madre è morta, però, Mattia ha incominciato a esprimersi in versi, e ha scoperto che le parole scorrevano in lui come se si fosse rotto un argine. Come scrive Gibran «la poesia è il salvagente/ cui mi aggrappo/ quando tutto sembra svanire./ Quando il mio cuore gronda/per lo strazio delle parole che feriscono/dei silenzi che trascinano».

«Scrivere versi è stata una scelta istintiva; sono riuscito a sfogarmi – osserva Mattia – a trovare la forma adatta per esprimere ciò che sentivo. La vicinanza di Sabrina mi ha aiutato molto anche in questo, all’inizio scrivevo molte poesie d’amore dedicate a lei. Ho speso molto tempo per questa mia passione, e potrei dire che sia stato terapeutico: è stata come un’ancora che mi ha permesso di superare la tristezza in cui ero sprofondato, di rimettere insieme i pezzi e di tornare alla vita».

Mattia ha scritto moltissimo e poi ha deciso di raccogliere questi testi: «Li ho pubblicati con la piccola casa editrice Antologica Atelier in tre volumi. Nel primo, “Dritto al cuore”, uscito nel 2016, c’erano soprattutto poesie d’amore. Nel secondo, invece, “La luna e i suoi occhi” ho inserito anche alcuni testi autobiografici, superando la paura che avevo di espormi dal punto di vista personale. All’inizio del 2018 ho pubblicato anche “Tracce di me”, il volume conclusivo di questa trilogia poetica». Poi i progetti di Mattia si sono ampliati, ha lavorato a un vero e proprio romanzo: «Ho sempre avuto una grande passione per la storia, soprattutto quella del Novecento, così mi è venuta anche l’idea di scrivere “Quando le stelle brillano ancora” ambientato ai tempi in cui Berlino era ancora divisa in due dal muro che separava i due blocchi, Est e Ovest. Parla di una nonna e di una nipote, e di un segreto che le unisce. È uscito da meno di un mese ma mi sta già dando molte soddisfazioni».

Nel frattempo Mattia ha incominciato a cercare lavoro: «Non riuscivo a trovare nulla nell’ambito editoriale, che per me era il più interessante – spiega – e per guadagnare qualcosa davo ripetizioni a ragazzi con disturbi di apprendimento. Così ho scoperto l’esistenza della figura dell’educatore, con un ruolo diverso dall’insegnante di sostegno, che offre un supporto a bambini e ragazzi con problemi diversi, dall’autismo all’iperattività. Nel 2016 ho incominciato a lavorare con una cooperativa seguendo un ragazzo autistico. Quest’anno ne seguo tre, con problemi diversi, tutti frequentano il primo anno delle superiori. Non è un lavoro semplice, in compenso è molto coinvolgente e interessante. Spesso capita che questi ragazzi vengano emarginati, messi da parte, io mi impegno perché questo non accada. L’ambiente in cui noi operiamo non è soltanto quello scolastico, a volte c’è l’occasione di accompagnare uno di loro a fare la spesa oppure di aiutarlo in ambiti diversi dell’esperienza quotidiana perché conquisti maggiore autonomia. A volte creare legami non è semplice, bisogna conquistarsi ascolto e fiducia, poi però i risultati che si ottengono sono sorprendenti e gratificanti».

La scrittura ha contribuito a rimettere in moto i sogni di Mattia e a dargli finalmente una svolta positiva: «Si sente dire a volte che la vita possa restituirti ciò che prima ti ha tolto, per me è stato così. Negli anni più bui e più duri della malattia di mia madre mi sono sentito solo, abbattuto, poi però sono riuscito a invertire la corrente, a creare un circolo virtuoso di eventi positivi. Tra i miei amici c’è un attore che si dedica a letture sceniche: quando ha saputo che scrivevo poesie mi ha introdotto nel gruppo culturale e artistico “Un fiume d’arte” di Ponte San Pietro, e da lì sono nate tante occasioni d’incontro, presentazioni, reading poetici. Questi incontri, ovviamente, non sono mai molto affollati, ma proprio per questo la condivisione e lo scambio con il pubblico diventano spesso molto interessanti. Questa ovviamente resta per me una passione, non una professione».

Prima Mattia teneva i suoi testi chiusi in un cassetto: «Quando ho incominciato a farli circolare ho realizzato il mio riscatto personale. Ho conosciuto artisti, pittori, altre persone che scrivono poesie. Non mi sarei immaginato di compiere esperienze di questo tipo, sono sempre stato molto timido. È difficile proporre in prima persona i propri versi ai lettori, ma è anche un momento intenso e magico. Credo che oggi ci sia bisogno di poesia, di un linguaggio diverso, più denso ed emotivo. Ho imparato che anche nei momenti più tristi e drammatici non bisogna mai mollare, semmai continuare a cercare la strada giusta per esprimere ciò che abbiamo dentro. Nei miei testi c’è la mia filosofia di vita: nonostante gli ostacoli e il dolore che incontriamo c’è sempre la possibilità di passare oltre, di ricostruire qualcosa di diverso, di essere felici. La vita è una e abbiamo la responsabilità di viverla bene, fino in fondo».

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