Mancanza di forze, disturbi nel dormire o della memoria: la lunga scia del Covid

I risultati del follow up su 1.500 pazienti seguiti all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Marco Rizzi, direttore del reparto di Malattie infettive: «Costellazione di sintomi persistenti dopo il virus».

Un anno dopo, i segni del Covid restano profondi. Nella memoria collettiva e sempre più nel fisico di chi c’è passato, l’«eredità» della malattia è un mosaico complesso. Inedita – e potente – l’infezione, inedito è spesso anche il quadro delle problematiche che ancora si trascinano dopo la guarigione. «Ci sono diversi livelli», premette Marco Rizzi, direttore del reparto di Malattie infettive del Papa Giovanni, che già nei mesi scorsi aveva firmato, insieme ad altri colleghi dell’Asst cittadina, un importante studio sulle conseguenze a lungo termine del Covid.

Il primo livello, basilare, è comune a tutte le lunghe ospedalizzazioni. «Anche nei pazienti Covid vediamo le sindromi tipiche di chi esce da un prolungato ricovero, in reparto o in terapia intensiva, e che comportano un lungo percorso di recupero funzionale, a volte non pieno, complicato», spiega Rizzi. Il secondo livello, anche questo sostanzialmente chiaro, ha a che fare con i danni agli organi toccati dal Covid: «Chi fa una brutta polmonite può avere danni permanenti ai polmoni. Si può riscontrare minore efficacia sul lungo periodo, in qualche caso non torneranno mai a funzionare pienamente», prosegue il primario. Poi, appunto, c’è il quadro più complesso, l’ulteriore sfida nella sfida: «Anche per via delle altre complicanze occorse a causa dell’infezione, per esempio problemi neurologici o cardiologici, emerge un terzo livello di conseguenze post-Covid: una costellazione di sintomi non tanto correlati alla gravità dell’episodio acuto, ma un prolungato andamento altalenante del proprio stato di salute.

Si tratta di sintomi abbastanza generici, dalla mancanza di forze alla difficoltà nel dormire o nel restare svegli, oppure disturbi della memoria, difficoltà a svolgere attività fisica o lavorativa – approfondisce l’infettivologo –. Queste situazioni si vedono con relativa frequenza e persistenza e compaiono a distanza dall’episodio acuto, cioè dalla grave polmonite interstiziale tipica del Covid». L’«osservatorio» di Rizzi poggia anche sull’importante percorso di follow-up avviato dal «Papa Giovanni» sin dal termine della prima fase, ben oltre il migliaio (circa 1.500) i pazienti seguiti. L’ambito clinico e quello della ricerca s’intrecciano: «Queste conseguenze sono l’aspetto più dibattuto di quel che viene chiamato post-Covid o long-Covid. È una situazione difficile da definire, perché non ci sono esami di laboratorio strumentali, ma la sindrome sicuramente esiste – rimarca Rizzi –, perché tanti pazienti riportano una costellazione di sintomi molto simili. Se per le fibrosi polmonari conseguenti una brutta polmonite interstiziale si entra in un percorso di cura noto, per questa costellazione di sintomi post-Covid non esistono in realtà strategie di trattamento ben definite».

Sulle reinfezioni, invece, a distanza di un anno dalla prima esplosione del virus sono sedimentate più certezze. Restano aneddotici i ritorni della malattia, conferma Rizzi, non invece le «ripositivizzazioni». La distinzione è importante da un punto di vista clinico: «Ci sono persone che a distanza di mesi presentano tamponi positivi, appunto le ripositivizzazioni. Che queste persone sviluppino una malattia di qualche significatività clinica sembra invece essere un evento molto, molto raro – aggiunge il medico –. Quando si vede una persona con già un’infezione alle spalle e che sembra presentare di nuovo la malattia, in quel caso si va a cercare una variante che non sia coperta dall’immunità acquisita dopo l’infezione dello scorso anno». A proposito di varianti, ribadisce Rizzi, «mentre abbiamo evidenza di una diversa e maggiore trasmissibilità, non abbiamo invece visto differenze nette in termini di gravità della malattia provocata, almeno per quanto riguarda l’inglese. Ci sono alcune varianti che sembrano un po’ più aggressive, come la brasiliana, ma i numeri non sono significativi».

Un anno dopo, il cerchio si chiude indagando i possibili nuovi sintomi del Covid. Rizzi propone una prospettiva che poggia sul lavoro sul campo: «Non sono cambiati i sintomi. Sono cambiate le condizioni in cui i pazienti arrivano in ospedale, l’età dei malati – è la distinzione del primario –. Prima arrivavano tutti casi respiratori gravi; se c’erano anche altri sintomi minori, per esempio alterazioni gastrointestinali, erano di più lieve entità. Un po’ diverso è il discorso se si guarda all’età dei pazienti: nei giovani, in cui l’eventuale scompenso respiratorio intercorre più tardi, possono emergere altri sintomi di vario genere, da neurologici a gastroenterici a cardiologici. Le variabili fondamentali, oggi come ieri, restano l’età e le comorbilità».

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