«Mia moglie e mia figlia salvate da un muro»
Beirut, il racconto di un bergamasco

Nicola Offredi, di Osio Sotto, abita a Beirut da 20 anni: ha aperto un ristorante. Visse il conflitto del 2006. Durante le esplosioni era in ascensore, poi bloccato. «Peggio della guerra: tragedia enorme, dolore incancellabile».

Il suo animo è dilaniato, i suoi occhi urlano dolore. E rabbia. Nicola Offredi, originario di Osio Sotto, vive a Beirut da vent’anni. Una scelta di vita che lo ha portato ad aprire un ristorante, «Al dente», tra i più rinomati della città e a tracciare un solido ponte tra il Paese dei Cedri e Bergamo. Altre volte si è trovato nel dramma della guerra. Ma, dice, «una tragedia simile non l’avevo mai vissuta». Un Paese che è ormai una sua seconda pelle, il Libano dove ha portato l’eccellenza bergamasca dei casoncelli. E dove è stato anche insignito dell’ordine della stella della solidarietà proprio per il suo impegno di pace e aiuto al dialogo.

Proprio per questo quelle esplosioni, al suo cuore, hanno suscitato una lacerazione particolare. «Mi trovo proprio di fronte all’ospedale francese – spiega – quando è accaduta la tragedia ero in ascensore, ho sentito questa tremenda esplosione, poi sono rimasto bloccato».

Il pensiero ai familiari

Il primo pensiero è stato per la moglie Rita e la figlia Anais, le perle più preziose della sua vita, una famiglia formata proprio quando ha abbracciato il Libano. «Per fortuna – dice – loro si trovavano dietro il muro della casa e non è accaduto loro nulla».
il suo sguardo è ora memoria di immagini raccapriccianti. Di esse una gli è rimasta particolarmente impressa come un fotogramma di dolore che testimonia la prostrazione di un Paese nobile e fiero, di gente accogliente ma sempre alle prese con il tremore di qualche scossa tellurica derivante il cui grembo non è la terra ma la follia umana: «Stamattina (ieri mattina, ndr) – prosegue – mi sono recato in centro, stavo andando al supermercato, ho visto scene di ogni genere, gente che andava in giro con lo scooter coperta di sangue. Sono usciti i militari per controllare la situazione, davvero uno scenario lugubre e tragico». Offredi conosce già bene che cosa significhi in Libano l’urlo della guerra e degli scoppi delle bombe. «Già nel 2006- dice – ero stato testimone di una guerra qui in Libano e avevo provato, oltreché dolore, una profonda irritazione, le stesse di adesso». Il riferimento di Offredi è al 12 luglio di quell’anno allorchè gli Hezbollah sferrarono un attacco a una pattuglia dell’esercito israeliano che stava perlustrando il villaggio di Zar’it e uccisero otto soldati facendone prigionieri due.

Le esplosioni sono venute a rendere ancora più cupo un quadro che già annovera parecchi colori scuri: «Il Libano – spiega Offredi – deve già fare i conti con una situazione di crisi economica particolare, poi abbiamo dovuto fare i conti anche noi con il dramma del Covid-19, adesso queste esplosioni, è tutto davvero assurdo». Assurdo dover vedere «amici che hanno tutti la casa frantumata, la nostra stessa casa con le finestre tutte dilaniate, gente ferita per l’esplosione dei vetri».

Il dolore non ha nome

Il dolore non ha un nome solo, ne ha mille. E un perché che ti si conficca dentro come una scheggia pungente e non ti abbandona. A quel perché Offredi ha cercato di dare una fisionomia definita. «In quella zona – spiega- si trova un deposito di armi di Hezbollah, sono stati sentiti due aerei sul confine, probabilmente si tratta di un conflitto con Israele».

Scorrono insomma in chi ha scelto il Libano e ha fuso con esso l’amore immutato per la sua terra bergamasca le immagini di un giorno che non si potrà mai rinchiudere nella stanza dell’oblio. «Una cosa così non l’ha mai vista nessuno – ripete - tanti morti e un dolore che non si può cancellare». Ora il Libano attende di tornare a ricrescere in una rinnovata speranza. Alto e fiero come il cedro che troneggia sul suo vessillo nazionale».

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