«Nell’affresco gli angeli siamo noi»
Nei ritratti si riscoprono da bambini

Nella chiesa di Brusicco a Sotto il Monte, in un affresco di Vanni Rossi i ritratti di sei piccoli sfollati durante la guerra. Il pittore li prese a modello. I ricordi lieti e tristi di due di loro, oggi ottantenni

Sei angioletti fanno da corona a Dio Padre nell’affresco dell’abside di Santa Maria di Brusicco a Sotto il Monte, la chiesa dove fu battezzato il futuro San Giovanni XXIII. Ma a ben guardare non si tratta di volti celesti, piuttosto di bambini in carne e ossa, che abbozzano un sorriso e con lo sguardo un po’ perso nel vuoto. Di fanciulli veri si tratta, presi a modello dal pittore che eseguì l’affresco.

Era il 1944 e oggi alcuni degli angioletti hanno più di ottant’anni, mentre altri purtroppo sono già volati in cielo. Varcare la soglia della chiesa e guardare quei dipinti, è specchiarsi nella loro fanciullezza, è riportare la memoria di un periodo tragico, quando piovevano bombe sulla Bergamasca. Giglio e Anna Maria Reduzzi, Augusta e Fabrizio Agazzi, Cecilia ed Ettore Sanguineti (quest’ultimi sembra emigrati in Svizzera): sono loro i sei angioletti ritratti dall’artista Vanni Rossi di Ponte San Pietro. È una storia piena di tenerezza, capace di rievocare uno spaccato di vita di alcune famiglie dell’Isola, una quotidianità fatta di duro lavoro nei campi, di valori che sembrano ormai scomparsi, di un senso religioso radicato.

Un caso fortuito ha voluto che uno degli angioletti presenziasse all’incontro di presentazione del libro «Un’Isola insolita e segreta» (realizzato da chi scrive per PromoIsola) dove è citata particolarità della chiesa di Brusicco. «Quell’angioletto sono io». Augusta Agazzi, che tutti chiamano Biba (per via dell’acconciatura che portava da piccola) ha strabuzzato gli occhi quando ha sentito parlare dell’affresco. Oggi ha 81 anni e una dimestichezza con pc e smartphone da far impallidire il più ipertecnologico dei

giovani. Accende il computer e ci mostra le foto di lei da piccola, davvero un angelo. «Questo episodio – dice - mi ha portato indietro agli anni dell’infanzia. Le nostre famiglie si erano trasferite da Ponte San Pietro a Sotto il Monte a causa della guerra. Mia mamma, Gioconda Carla Donadoni, alcune notti, ospitava suo fratello Felice, vice comandante della Brigata Albenza, e il cugino Alberto Villa, capitano degli Alpini, medaglia d’argento al Valor militare che al ritorno della tragica campagna di Russia, organizzò la Brigata partigiana bianca di cui divenne comandante. Entrambi erano ricercati e venivano a casa nostra a sentire Radio Londra e a prendere il chinino che procurava loro mio papà Antonio per curare la malaria che colpiva i nostri patrioti rifugiati sul Monte Canto. Tante famiglie di Sotto il Monte sostennero la lotta di Liberazione in silenzio, con riservatezza e rischiando molto senza voler poi mostrarsi sul carro dei vincitori. A noi bambini veniva raccomandato di non farci sfuggire parola di quelle visite».

«Avevo 6 anni – continua Biba – e con me c’erano mamma e i due fratelli Fabrizio (uno degli angioletti ritratti Ndr) e Manlio. Papà, che aveva seguito le orme del nonno medico, era ginecologo, e non aveva voluto allontanarsi dai suoi malati a Ponte San Pietro nonostante i bombardamenti. Per quanto i grandi cercassero di farci sentire il meno possibile l’impatto della guerra, noi percepivamo le paure di allora e, quando di notte venivano gli aerei a bombardare Milano e la vicina Calusco e Ponte San Pietro, venivamo avvolti in coperte e portati in uno spiazzo sovrastante la strada, dove era stato allestito un campo di fortuna, una specie di capanna coperta con un telone e all’interno delle balle di paglia. Da lì vedevamo i bagliori su Milano, che procuravano una stretta al cuore a tutti. Vedevamo nel cielo i fasci di luce della contraerea e sentivamo il rumore cupo delle fortezze volanti. Tutto veniva fatto nel buio assoluto, c’era il coprifuoco. Era concessa, dentro il tendone, solo un lanterna a petrolio, anch’essa con il vetro oscurato».

Quanto tempo è rimasta a Sotto il Monte? «Circa tre anni e una settimana prima della Liberazione, il vescovo Adriano Bernareggi mi impartì la Prima Comunione nella Chiesa di Brusicco. Il presule era anche un grande appassionato d’arte e conobbe Vanni Rossi». E quindi come andò la vicenda dell’affresco? «Il pittore ci chiese di fare da modelli – continua Biba – ma per noi era un po’ una tortura. Si arrabbiava perché non stavamo fermi. La chiesa poi era freddissima, in parte diroccata, si stavano eseguendo i restauri. Però la cosa ci divertì. A dire il vero il maggior divertimento era suonare le campane, grazie alla magnanimità del sagrestano Sandro Panzeri, mentre il prete era don Mario Minola (detto «ol curat de la paia», raccoglieva paglia dai contadini per rivenderla per poco spiccioli)».

Nonostante il periodo travagliato Biba e gli altri bambini hanno «partecipato con spensieratezza a tutte le fasi della vita agricola: l’aratura con i 4 buoi, la mietitura fatta con la falce a mano, la trebbiatura con quella terrificante macchina che produceva rumore assordante e polvere, la divertente sfogliatura e sgranatura delle pannocchie, la pigiatura dell’uva con i piedi. Erano tutte operazioni faticose per chi lavora la terra, ma per noi bambini erano motivo di allegria. E per ultimo c’era la stalla, la nostra sala giochi; era il locale più caldo e nei pomeriggi invernali si radunavano le nostre mamme per sferruzzare, mentre noi bambini giocavamo a rubamazzetti».

La vita di Biba – appena raggiunta la maturità – è continuata all’estero: «Nel ’58 mio padre mi ha mandato a Londra per imparare l’inglese. Tornata in Italia ho lavorato come dirigente in una multinazionale americana, specializzata in strumenti per la ricerca scientifica, con sede a Milano». Fra gli angioletti ancora in vita, c’è Giglio Reduzzi. «L’anno del quale conservo maggiori ricordi – dice - è quello che ho trascorso da sfollato a Sotto il Monte, in casa dei nonni materni. In quel soggiorno forzato ho avuto modo di fare amicizia con le famiglie Roncalli, fino ad avere un mio orticello personale nei loro campi. Certo allora - si trattava degli ultimi mesi della seconda guerra mondiale - ci voleva poco per farmi contento: bastava una fetta di pane bianco, in sostituzione di quello giallo fatto con la meno introvabile farina di mais. Poi c’erano le pesche dei Roncalli, che spaccavamo a metà sotto l’albero, lasciando cadere il nocciolo. Le bocce di legno, più ovali che rotonde, con cui giocavamo per strada. Tanto ci passava solo la macchina del medico condotto ed i carri agricoli, trascinati da buoi. Ho rivisto recentemente la casa dei nonni e mi sono chiesto come potesse contenerci tutti, visto che eravamo ben 11. Eppure non ricordo di aver mai sentito nessuno lamentarsi per l’angustia del luogo e l’inadeguatezza dei servizi igienici. Nemmeno la nonna paterna che, dormendo in soffitta con un tetto non coibentato sopra la testa poteva sì ammirare le stelle, ma anche gelare dal freddo».

«I ritratti degli angioletti – continua Reduzzi - furono realizzati nel 1944 da Vanni Rossi. Il suo capolavoro è la parrocchiale di San Giuseppe di Pozzo d’Adda dove ha dipinto una sorta di girotondo con i ritratti di ben 40 bimbi. Anche l’artista si trovava a Sotto il Monte come sfollato». Reduzzi, 84 anni, laurea in Scienze Politiche, già dirigente nelle aziende Dalmine, Necchi e Piaggio Aeronautica, vive a Genova: «Guardare quel faccino dell’abside di Brusicco mi provoca ancora emozione». E con pizzico di ironia aggiunge: «Ma ho un rammarico. Dopo quella volta, più nessuno mi ha voluto ritrarre».

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