Per crescere
serve produttività

Se si passa dal mito della decrescita felice al pragmatismo di un decreto crescita, annunciato in coppia addirittura con uno Sblocca cantieri, dobbiamo esultare per un recupero di buon senso o preoccuparci per la confusione al potere? I tanti ammonimenti sulla recessione alle porte, sono versi da gufi o il governo ha capito che deve cambiare direzione prima che sia troppo tardi?

Perché, delle due, una: o è una svolta, o è solo un modo per riempire di buone intenzioni il «bimestre bianco» dell’immobilismo, in attesa delle elezioni. Sarà certo poca cosa se la crescita sarà affidata, come trapela, a un recupero parziale (perché i soldi mancano) delle agevolazione cancellate appena tre mesi fa, e se in tema di appalti si tornerà semplicemente alla logica ipocrita del massimo ribasso.

Quanto alla Tav, tutti sanno che per il momento vige solo l’auspicio di rinegoziazioni con Unione europea e Francia, già sgarbatamente ma comprensibilmente escluse da Macron nello spazio di un caffè con Conte. Se poi sono solo palliativi per guadagnare tempo e far finta di litigare, il passo dalla stagnazione alla recessione sarà breve. Aspettare il 26 maggio è non capire che la ricreazione é finita già adesso. Le previsioni di tutti i più autorevoli centri di osservazione non sono esercizi per addetti ai lavori, ma riguardano il cittadino comune. Quando Confindustria ha parlato di crescita zero non si rivolgeva agli industriali, ma a tutti. In particolare è il Nord che deve preoccuparsi. Se ci fossero dubbi, basterebbe un dato fornito da Confcommercio, basato sul Pil pro capite, cioè sulla vita vera di ciascuno di noi. In vent’anni nell’Ue è cresciuto del 27,6%, mentre in Italia si è fermato all’1,2%. Cioè, ciascun italiano, è oggi 14 volte più povero degli altri europei di quanto fosse vent’anni fa. E la crisi mondiale valeva per tutti, l’euro per quasi tutti. L’inversione di tendenza dopo il 2014, con un livello al +1,5%, si è spenta.

Decretare sulla crescita ha senso quindi solo se si punta sulla produttività, che vuol dire agire sui fattori trasversali (banche, finanza, energia, fisco) e sull’innovazione 4.0, da poco depotenziata perché troppo marchiata Calenda. Tutti tabù per il partito votato lo scorso anno da un italiano su tre. La suggestione 5 Stelle stava nella proposta di un modello diverso, addirittura di uno stile di vita alternativo. Una società senza diseguaglianze che non cerca un equilibrio tra meriti e bisogni, in cui tutti si accontentano di poco. Una società cui non servono banche, finanza, infrastrutture, competitività, e men che meno F 35 da ordinare. Al massimo é concesso un po’ di export di arance verso la Cina, lasciando alla Francia la vendita di AirBus per 30 miliardi. Il reddito di cittadinanza, quindi, come simbolo, non il misto tra modeste politiche attive del lavoro e contrasto alla povertà che è diventato, perdendo l’ispirazione onirica senza trovare l’efficacia e registrando per ora più diffidenza che adesioni.

Diventata governo, l’utopia ha dovuto confrontarsi con la realtà di un mondo che ha il difetto di dar importanza al Pil, allo spread, al costo del debito in costante crescita (6 miliardi al mese) dopo manovre a prestito. Già è dura dover mettere i sogni e le promesse in un arido contratto, da sottoscrivere con quelli che fino a ieri erano parti inquinate del partito unico del Pd e del Pd più elle. Diventa ora un insolubile rebus se si deve render conto del governo di un grande Paese industriale. Si perde l’innocenza delle origini, quando il male assoluto erano tutti gli altri: l’Europa, le banche, Draghi, Monti e naturalmente la Lega, e ora si devono accettare (molto supinamente) le regole di Bruxelles e ringraziare i tassi bassi di Francoforte. Duro mandar giù bocconi amari, farsi insultare in Puglia per la Tap concessa e in Basilicata per le trivelle autorizzate, rischiare brutto nelle valli torinesi per la Tav, ultimo baluardo di promesse infrante e di voti già dimezzati.

Se questo è il quadro fosco del più grande gruppo del Parlamento, la cosa ci riguarda tutti, perché la crisi di identità di un partito così grande rischia di condizionare un intero Paese, e intaccarne stabilmente la credibilità.

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