Svetlana, a Bergamo voluta da Parenzan
«Ora aiuto i russi all’ospedale in Fiera»

L’anestesista di Novosibirsk Svetlana Martchenko è approdata a Bergamo nel 1997 per un master Adesso lavora con i colleghi medici inviati da Mosca.

È arrivata a Bergamo dalla lontanissima Novosibirsk, nel cuore della Siberia, nel 1997: a portarla agli allora Ospedali Riuniti era stato il maestro della Cardiochirurgia Lucio Parenzan, con l’ International Heart School, per un master di cardioanestesia.

Da allora, non è più andata via, Svetlana Martchenko, e oggi, medico anestesista della Terapia intensiva neurochirurgica, è in prima linea contro il Covid: prima al Papa Giovanni, poi, con l’ apertura del nuovo ospedale degli Alpini, lavora alla Fiera. «Mi è stato assegnato un compito di “collegamento” tra la nostra Terapia intensiva e l’ ospedale della Fiera: una grande responsabilità». Alla Fiera Svetlana lavora con colleghi russi come lei, arrivati con le spedizioni umanitarie di sostegno alla Lombardia: a loro è affidata la gestione di una parte della Terapia intensiva dell’ ospedale alla Fiera, oltre che le degenze del nuovo presidio.

«Con i colleghi russi ho un ottimo rapporto, con noi hanno subito fatto gruppo: hanno oltretutto due interpreti che abbattono anche le barriere linguistiche tra colleghi.Certo, per il rapporto tra pazienti e i medici, il mio ruolo di traduttrice viene molto apprezzato,dai degenti, visto che parlo bene l’ italiano». Perché Svetlana in Italia, a Bergamo, ha una seconda patria: qui ha conosciuto l’ amore, l’ uomo che è diventato suo marito (e il testimone di nozze è stato proprio Lucio Parenzan) , e qui è nato anche il figlio che oggi ha 21 anni, studente universitario.

«Bergamo, la città che amo, è stata straziata da questa pandemia: non era immaginabile una tragedia simile; in ospedale, quando sono arrivati i primi casi, abbiamo intuito che eravamo di fronte a un evento di proporzioni spaventose, ma trovarsi poi nel cuore del ciclone è stato devastante. Pazienti che arrivavano con pesantissime difficoltà respiratorie, uno dietro l’ altro, in condizioni drammatiche molto spesso. Non solo persone anziane, con il passare dei giorni abbiamo cominciato a curare persone giovani, e senza altre patologie. Ora, qualcosa sta cambiando, ma mette i brividi ascoltare quello che ci raccontano i pazienti dopo lunghe settimane passate in Terapia intensiva».

Svetlana fa una pausa, la voce incrinata dall’ emozione. «Raccontano di non ricordare cosa è successo, alcuni ricordano solo frammenti di eventi, come un film dell’ orrore. C’ è chi mi ha detto: “Sono tornato dall’ altro mondo”.

L’ esperienza più devastante è quella di malati che escono dalla Terapia intensiva, dopo essere stati intubati e quindi sedati, che tornano a respirare ma nello stesso momento scoprono che i loro cari sono morti. È successo con un paziente giovane, di recente: ha saputo che il padre e la madre erano morti. Al trauma della malattia, della sofferenza vissuta, del ritorno alla vita, si aggiunge il trauma psicologico. Per questo qui è stato attivato anche qui dall’ ospedale un servizio di sostegno psicologico. Anche noi operatori sanitari restiamo provati da questi eventi.

Intere famiglie sono completamente travolte dalla furia di questo virus». Emozioni che Svetlana dice non dimenticherà mai più: «Io, e molti altri colleghi, ci guardavamo increduli quando, telefonando ai parenti di qualche malato che stava peggiorando, spiegando tutto quello che stavamo tentando, anche raccontando che al loro caro era necessario praticare il trattamento con l’ Ecmo, l’ ultima speranza per non morire, ci sentivamo dire: “Grazie di cuore per quello che state facendo”. Ci sono grati per come curiamo i loro cari, anche quando comunichiamo loro che il loro parente purtroppo non ce l’ ha fatta. Davanti a notizie tragiche, come quella di un parente che sta soccombendo al virus, ci si aspetterebbe ben altre reazioni. Ma ci dicono grazie per come li abbiamo curati. Non potrò mai dimenticare queste emozioni.

Ora, negli ultimi giorni, stiamo assistendo meno, per fortuna, a situazioni critiche; c’ è meno pressione nel pronto soccorso, meno ricoveri, e chi arriva sembra essere in condizioni meno gravi. Ma non abbassiamo la guardia: è troppo presto. Dobbiamo ricordare che questa è una pandemia mondiale, e che di questo virus si sa ancora poco. All’ inizio, quando mi scambiavo informazioni con i colleghi russi, loro mi scrivevano di essere preoccupati per noi, per Bergamo, per me. Ora la preoccupazione è anche per loro: i focolai in Russia, a Mosca, stanno diventando allarmanti. Dobbiamo stare attenti, tutti, in tutto il mondo».

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