«Turni massacranti, ma anche soddisfazioni»
L’infermiera: basta la felicità di chi guarisce

Valeria Palma, 27 anni, dalla ginecologia si è trovata a gestire i malati Covid-19 al Papa Giovanni: «Non chiamateci eroine, facciamo solo il nostro lavoro».

«I solchi sul viso sono uguali a quelli di molti suoi colleghi in questi giorni. Le righe sulla faccia, quelle formate dalle mascherine protettive indossate ormai sempre, sono ben visibili. «Fanno male e sono stanca perché i turni sono massacranti, in quelle tute che sembrano spaziali sudiamo costantemente, senza praticamente nemmeno bere, in piedi dalle 8 alle 10 ore a girare persone che pesano dagli 80 chili in su. Però oggi un mio paziente, dopo una settimana di intubazione e dopo essere stato estubato ha fatto la sua prima chiamata a casa. E io ero con lui. Ho visto le facce tramite video di chi gli voleva bene, i sorrisi, le parole di incoraggiamento, ho sentito il loro e il suo debole grazie, ho provato una forte emozione. E dico che oggi è una buona giornata».

«L’emergenza ha cambiato tutto»

Lei si chiama Valeria Palma, 27 anni appena compiuti, abita a Dalmine e fa l’infermiera di anestesia in sala operatoria pediatrica e ginecologica al Papa Giovanni XXIII di Bergamo. O almeno questo era quello che faceva fino a fine febbraio scorso. Perchè di fronte all’emergenza tutto è cambiato. Valeria ha inizialmente seguito i trasporti di pazienti Covid in altri ospedali: Mondovì, Udine, Sondalo e Milano. «Era la prima volta che salivo su un’ambulanza - racconta - e lì mi sono resa conto di quanto la situazione fosse grave, quando in una sola notte ho fatto 4 trasporti. Dal 19 marzo, invece, sono in terapia intensiva. Dopo qualche giorno in affiancamento a chi c’era già, siamo partite. Cosa faccio? gestiamo in tutto e per tutto il paziente, dall’igiene (in terapia intensiva non ci sono Oss) al controllo dei parametri, dalla regolazione dei farmaci in continua, alle diverse fasi che portano i pazienti alla subitensiva. La prima settimana mi sono detta: se va avanti così non resisto nemmeno un mese. Vedevo morire in media due-tre persone a turno e non erano solo anziani, ma 50 o 60enni. In quei giorni andavo a casa, chiamavo mia nonna per chiederle se era tutto ok e poi messa giù la cornetta, piangevo».

«Non è finita, state a casa»

Quando le si chiede com’ è la situazione ora, l’infermiera dalminese risponde: «Difficile. Da una parte è innegabile che stiamo tirando un sospiro di sollievo perché gli accessi al Pronto soccorso per Covid sono diminuiti e anche per noi c’è un po’ meno pressione. Poi, però, penso che da due giorni quando vado al lavoro vedo tante, troppe, macchine in giro. Bisogna far capire alla gente che se cominciamo a vedere una luce in fondo al tunnel è proprio per i comportamenti messi in atto fino a ora. Continuiamo a stare a casa. Non è finito niente: ci si continua ad ammalare e a morire. Ho un paziente arrivato meno di una settimana fa che ha 25 anni». Settimane difficili e intese, di fatica, tra alti e bassi. «La situazione più brutta forse, a parte vedere le persone spegnersi senza il conforto di un parente è stato rendersi conto di cosa voglia dire lavorare con risorse limitate: mascherine e camici contingentati o quando nel mezzo dell’emergenza mi è stato detto che le siringhe da 50 ml andavano usate con parsimonia perché non ce n’erano più. Ecco lì mi sono spaventata. Senza contare l’incertezza: prima se avevi un dubbio andavi a vedere le linee guida ed eri tranquilla, oggi invece le risposte le abbiamo dall’esperienza di queste settimane. Però è anche vero che la terapia intensiva è un’esperienza lavorativa che ti fa anche vedere le persone tornare a vivere. E quel grazie che ti dicono quando capiscono di stare meglio, magari dentro un casco che li aiuta a respirare o lo sguardo che hanno quando li dimetti, fa bene anche a noi».

«Prima gli insulti, ora le lodi»

Ma non chiamatela eroina. «Non mi piace quella definizione - conclude Valeria - siamo le stesse persone di prima che saltano i riposi, rientrano dalle ferie, fanno straordinari. Siamo le stesse persone che venivano insultate o prese a male parole solo un mese fa. Facciamo ora, come abbiamo sempre fatto, il nostro lavoro».

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