Tutti i dati della «generazione perduta»
In Bergamasca quasi 29 mila Neet

La provincia di Bergamo, con un tasso di 17,1% sul totale dei giovani da 15 a 29 anni, è al terzo posto in Lombardia dietro a Pavia e Mantova. Ampio divario tra donne e uomini: 19.142 contro 10.785.

Gli esperti l’hanno già definita «la generazione perduta», forse con un po’ di paternale pessimismo. Certo, guardando i numeri nudi e crudi dei Neet non si può guardare al futuro con il sorriso. «Not in Education, Employment or Training»: l’acronimo inglese non aiuta ad addolcire il significato di un fenomeno troppo spesso sottovalutato, anche in provincia di Bergamo. Sono i giovani che non studiano, non lavorano e non partecipano a percorsi di formazione.

In passato sono stati chiamati «fannulloni», «choosy», incontentabili, esigenti, difficili, schizzinosi. In realtà queste definizioni dispregiative nascondono le ansie e la preoccupazione di migliaia di ragazze e ragazzi che non riescono a darsi un obiettivo di vita. A differenza dei coetanei disoccupati non girano da un ufficio di collocamento all’altro. Finiscono solo per cadere su loro stessi. E rappresentano un costo enorme per la società, sia in ambito economico che sociale. Perché sono una risorsa preziosa non sfruttata, uno spreco di potenziale e un rischio per il futuro. Senza un ruolo preciso nei processi innovativi di un Paese e di una provincia sempre più vecchi, dove i giovani - quelli veri, non i «nuovi» giovani - faticano a imporsi. Lo dimostrano i numeri.

Secondo gli ultimi dati ufficiali disponibili, nel 2018 in Bergamasca i Neet nella fascia compresa tra i 15 e i 29 anni sono 28.987. Un non invidiabile secondo posto in tutta la Regione dietro alla città metropolitana di Milano, con 63.796. Dal 2011, anno in cui la crisi stava ancora assestando pesanti colpi all’economia, la curva è stata piuttosto altalenante, con improvvise salite e più tranquillizzanti discese. È la dimostrazione che quello dei Neet è un fenomeno liquido, in continua evoluzione e molto difficile da inquadrare anche per chi si occupa di studiare politiche ad hoc. Negli ultimi anni il picco in provincia di Bergamo si è registrato nel 2015 con 36.417 giovani Neet, poi ecco la discesa fino ai 28.987 del 2018, in leggero calo rispetto ai 29.927 dell’anno precedente.

Il problema è anche di genere, soprattutto a Bergamo. Le giovani Neet infatti sono quasi il doppio dei maschi. Solo nel 2017, ultimo dato disponibile, le Neet sono state 19.142 contro i 10.785 del genere maschile. Non è così nel resto d’Italia, dove la condizione si distribuisce in modo quasi identico tra donne (52%) e uomini (48%). E lo stesso vale anche nelle altre province lombarde, dove i dati non mostrano un divario così ampio come quello registrato negli ultimi anni in provincia di Bergamo.

INFOGRAFICA

Quanto «pesano» questi numeri? Oltre al genere, è importante analizzare anche il tasso dei Neet, rispetto al totale dei giovani della stessa età, per capire l’incidenza del fenomeno sull’intera generazione. In questa non invidiabile classifica Bergamo è terza in Lombardia con il 17,1% di Neet Rate. Al primo posto c’è la provincia di Pavia, unica sopra il 20%, precisamente al 21,1%, mentre al secondo posto quella di Mantova con il 19,4%.

Per allargare lo sguardo al contesto nazionale, in tutto il Paese nel 2018 i Neet sono pari a 2 milioni e 116 mila e rappresentano il 23,4% del totale dei giovani della stessa età presenti sul territorio. Nel 47% dei casi i ragazzi hanno tra i 25 e i 29 anni, nel 38% i ragazzi hanno tra i 20 e i 24 anni e il restante 15% è nella forchetta 15-19 anni. Nel Nord Italia sono il 15,5%, nel Centro il 19,5% e nel Sud il 34%. L’Italia è la prima tra i Paesi europei per presenza di Neet, dove la media attuale è del 12,9%. Bergamo è quindi sotto la media italiana, ma molto al di sopra (5 punti percentuali) della media europea.

Secondo gli esperti, su tutti Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e statistica sociale all’Università Cattolica di Milano, coordinatore del «Rapporto giovani», Istituto Toniolo e autore del libro «Neet - Giovani che non studiano e non lavorano» (Vita e Pensiero, 2015) - il fenomeno è cresciuto in modo così evidente perché legato a due tipicità tutte italiane: la prima è il modello sociale che accetta una lunga dipendenza dei figli adulti dai genitori. All’estero, invece, è esattamente l’opposto. La seconda è più economica ed è legata allo sfruttamento del lavoro nero, che rappresenta una variabile difficilmente quantificabile, soprattutto in una fascia di popolazione così ristretta.

Di soluzioni se ne sono viste parecchie negli ultimi anni. Hanno avuto tutte qualcosa in comune, purtroppo: non sono riuscite a far calare il numero dei Neet in Italia. Il fondo per le politiche giovanili, dal 2013 al 2018, è arrivato a quota 40,5 milioni di euro e nel 2019 è stato incrementato di 30 milioni annui. Il tentativo più consistente però è la misura chiamata Garanzia giovani. È un programma governativo nato sulla base dello Youth Guarantee, misura europea che prevede dei finanziamenti per i Paesi membri con tassi di disoccupazione giovanile superiori al 25% , da investire in politiche attive di orientamento, istruzione, formazione e inserimento al lavoro. Il governo ha stanziato 1,5 miliardi fino a quest’anno. I risultati: stando ai dati di Anpal, l’Agenzia nazionale politiche attive per il lavoro, sono stati oltre 1,4 milioni gli iscritti al portale. Ma poco più di 300 mila hanno trovato un lavoro vero e proprio. In oltre un caso su tre, il 39,5%, a tempo indeterminato, nel 36,8% con l’apprendistato e il 20,1% è a tempo determinato.

Le famose «politiche attive» quindi per ora non hanno funzionato. Serve una marcia in più, anche sul fronte culturale (e fronte sembra essere una parola azzeccata), per non abbandonare un capitale umano così importante.

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