Ubi, la tecnica
e l’anima

Nel giorno in cui si compie in modo definitivo il passaggio dalla Popolare che abbiamo sempre conosciuto a una società di capitali di respiro nazionale e internazionale, sarebbe facile lasciarsi andare a mugugni e rimpianti tipicamente orobici sul tema e al sussurrio che Bergamo sarà più povera senza la «sua» banca. Ma servirebbe a poco. Ubi oggi è un’altra cosa. Fare banca è un’altra cosa: complessa, come le competenze e le conoscenze non indifferenti che richiede.

In questo, l’amministratore delegato Victor Massiah, ad esempio, è sempre efficace nel far parlare i conti: da quando è nata dodici anni fa, il 1° aprile del 2007, Ubi ha visto aumentare il suo patrimonio netto tangibile di quasi 2 miliardi, dai 5,2 miliardi di allora ai 7 miliardi del 31 dicembre 2018. «Abbiamo creato valore. Questi sono i numeri, il resto sono chiacchiere», ha chiosato Massiah in assemblea, difendendo con forza l’attività della banca: «È difficile lavorare quando ti arriva addosso anche la menzogna, ma noi abbiamo pazienza e resilienza».

Su questo piano, nulla è emerso in assemblea che possa mettere in dubbio la solidità della gestione della banca e il voto bulgaro (98,9%) con cui è stato eletto il nuovo consiglio d’amministrazione conferma una fiducia molto ampia nel management, anche da parte dei fondi d’investimento. Il dibattito ha riguardato piuttosto la nascita zoppa della nuova governance. Il sistema monistico prevede infatti un consiglio d’amministrazione con al suo interno un comitato di controllo della gestione la cui presidenza, in teoria, sarebbe dovuta andare alle minoranze. Previsione che non si è realizzata, dal momento che solo i soci storici di Bergamo, Brescia e Cuneo hanno presentato candidati per il rinnovo, mentre l’attesa lista dei fondi non c’è stata.

Il risultato, detto in soldoni, è che i «controllori» sono comunque espressione dei «controllati». In assemblea sono state date rassicurazioni sul punto, è stato rilevato come non si possa imputare alla banca l’assenza di una lista di minoranza ed è stato ricordato come, in definitiva, a valere sia l’indipendenza di giudizio dei singoli. Inoltre, anche qui siamo in terreni complessi, per cui spetterà, nel caso, a chi ha competenze e conoscenze sulla materia apportare eventuali correttivi al funzionamento del modello.

Lasciamo dunque la tecnica a chi se ne intende per mestiere, perchè i conti tornino e gli ingranaggi funzionino a dovere. C’è però qualcosa che va anche oltre. Un filo rosso. In assemblea si è parlato di «anima» e non suona stonato nemmeno se si ha a che fare con soldi e finanza, anzi.

Ognuno darà la sua interpretazione a questa parola. A ripercorrere la storia che è stata proprio della Popolare di Bergamo, vengono in mente alcuni «dogmi» ereditati da quella scuola bancaria: impegno, professionalità, passione, gioco di squadra, servizio ai territori. Ne parlava un paio d’anni fa in un’intervista al nostro giornale Osvaldo Ranica, ultimo direttore della Popolare, confermato ieri nel consiglio d’amministrazione di Ubi, spiegando i segreti del successo di quella banca così antica eppure così moderna, cresciuta nella prudenza, nel rispetto responsabile e consapevole dei soldi altrui e nella conoscenza personale di storie, progetti e bisogni di famiglie e imprese. In questo riconoscersi e capirsi reciproco si è costruita la ricchezza di un territorio: caduta tutta l’architettura del 1° aprile 2007 (sistema cooperativo, federale e duale), ciò che non potrà mai cadere di moda, alla fine, sarà proprio quest’anima.

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