Varcare la soglia in Radioterapia
Un percorso per lenire l’anima

Pubblichiamo la toccante lettera di una nostra lettrice che racconta con l’incontro con la realtà del reparto in cui i malati si sottopongono a radioterapia all’Humanitas Gavazzeni.

«Varcare la soglia di un reparto di Radioterapia è varcare la soglia di un reparto di Radioterapia. Quel che però mi è accaduto presso l’Humanitas Gavazzeni di Bergamo porta in sé qualcosa che è fuori dall’ordinario e di cui non posso non provare a lasciarne traccia».

«Alla chiusura della prima delle porte tagliafuoco, si apre una piccola sala d’attesa. Piccola però che tutti gli astanti possono sedersi, se lo desiderano. Piccola, da contenere la grandezza del silenzio che mai, come in queste circostanze, vale più di chiacchiericci inutili. Due donne, all’accettazione, delle quali non mancherà il saluto, l’allungo di un sorriso, tutti i giorni, per quindici giorni. Sia quando mi vedranno entrare (alle 15 circa), sia uscire (alle 15,20, al massimo). Par forse poca cosa scritta così, ma il tempo, in queste circostanze, diviene ancor più spazio. Ed evitare che quello spazio si popoli di mostri che d’angosce san divorare, io trovo sia attenzione assai rara. Alla destra delle due, dietro un vetro satinato, un’altra donna, occupare una scrivania. Mi spiace non averla vista in volto, ma immagino fosse… No. Non è necessario immaginare: in questo reparto, basta la realtà così com’è».

«Varcata la seconda porta tagliafuoco, è arancio. Un arancio che lascia sbigottiti: non ci sono finestre lungo tutto il corridoio. Eppure, la luce impera. Appese lassù, come era solito fare Egon Schile con le sue, di creature, qui si susseguono, una dopo l‘altra, quelle dell’AdE (Atelier dell’Errore), quelle che – si vocifera – non abbiano raggiunto per tempo l’Arca di Noè. E non si può non rimanerne incantati, sentirne la protezione, e non si può nemmeno non sorridere: dei loro nomi. Del loro, naturale, elogio della divergenza. Di nuovo, par forse poca cosa scritta così, ma la bellezza, in queste circostanze, forse ancor più che in altre, non penso certo salverà il mondo – e mi perdoni Dostoevskij –, ma di lenire l’anima, quello sì. Penso possa farlo».

«A metà corridoio, sulla destra, un’altra piccola sala d’attesa sulla quale si aprono gli studi. Accedo al primo, poi al secondo, poi al terzo e poi di nuovo, il quindicesimo, al terzo. Al primario, quell’ultimo giorno, avrei voluto chiedere se, come i protettori dell’AdE che lì s’aggirano, in fondo si possa ipotizzare che anche il cancro non sia un errore. Ovvero, se qualora lo fosse, più che cancellarlo, non lo si debba trasformare. O lasciarsi trasformare, non so».

Poca che sia, ricomincio a credere ferocemente in ciò che Hölderlin aveva intuito già più di un secolo fa: «Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva». Penso conoscesse anche il greco, non solo il latino. Hölderlin. Ma non l’ho fatto, non glielo ho chiesto. E ho lasciato fosse lui, il primario, a chiedere, con quella sua discrezione antica: come stessi, come fossero andati questi giorni. Come, come, come. Come con il primo dei medici che mi ha accolta; la medichessa che mi ha visitata a metà percorso».

«E ancora, sarà pur sempre poca cosa, ma a me pare che la capacità d’ascolto e l’interesse autentico nel farlo, favorisca nell’altro il riuscire a dirne. E in certe circostanze, è opzione – mi scuso per la ridondanza – assai rara. A quella mia però, ha risposto, semplificando per me, l’ho capito, lui. Così, all’improvviso. «Sì, si può dire che le cellule tumorali non siano programmate per morire». Son trasalita, perché trasposta su un piano simbolico, quello che d’altronde più mi interessa, fa così: il male non è destinato a morire. E non parlo di me, ovvio».

«Al termine del corridoio, sulla sinistra questa volta, si apre la terza sala d’attesa: un cavedio. Applauso all’intelligenza dell’architetto. Anche per le sedie, sono comode; e poi c’è un distributore d’acqua e poi non saprei dire altro perché le due infermiere che si sono alternate con una grazia da lasciarmi stupefatta, puntualmente comparivano: «Oggi spogliatoio n° 1». E io sorridevo, sembrava quasi una vincita. Ma l’Uno, di fatto, lo è».

«A seguire, le mani sapienti dei tecnici sanitari di radiologia medica, posizionare correttamente il mio corpo su quel lettino e: «E tutto a posto? Iniziamo. Abbiamo finito, a domani. Arrivederci». Quei minuti, giorno dopo giorno, mi sono sembrati sempre più brevi, mentre un mantra, nella mia testa, ripeteva solo grazie, dal cuore. Ai camici, sì: ché la professionalità e la rigorosità sono imprescindibili e, inutile dirlo, qui non mancano. Ma grazie, dal cuore, anche alle persone che nonostante li indossassero, tali rimanevano. E grazie, dal cuore a quella strana apparecchiatura, e a colui che l’ha ideata. Quella che mi ha avvolta senza sfiorami affatto, né farmi male, che ha emesso suoni strani, talvolta fasci di luce rossa, talaltra curiosi giochi di mattoncini grigi di cui non ho capito la logica. E infine, Grazie, di cuore a «Lei». «Lei» è la Ienacinta (nella foto, ndr) , la mia protettrice eletta, sorvegliante dell’entrata del bunker in cui tutto ciò che ho narrato è accaduto. Mi autodenuncio, ché nessun allarme è scattato: io, il quindicesimo giorno, io l’ho accarezzata. E senza che accadesse, il viola è tornato in me».

Maria Luisa

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