«Zone rosse anche da Regioni e sindaci»
Intervista a Silvio Troilo, esperto di diritto

Ordinario di Diritto costituzionale e docente di Diritto regionale all’Università di Bergamo «Più strumenti normativi consentono l’adozione di ordinanze urgenti in caso di calamità o rischi per la salute».

Chi poteva (doveva?) decidere, e dunque chi non ha deciso. Attorno al tema della (mancata) zona rossa in Val Seriana, a più di tre mesi dallo scoppio dei contagi, resta un dibattito sfaccettato, oltre che rovente: politico e polemico, tornato in auge negli ultimi giorni, ma anche giudiziario.

Al centro però c’è il diritto, complesso e allo stesso tempo chiaro, con le sue norme e il mosaico di leggi da cui attingere per frenare un’emergenza sanitaria senza precedenti. Il professor Silvio Troilo, ordinario di Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Bergamo, dove insegna anche Diritto regionale, passa in rassegna con precisione la dialettica tra Stato e Regioni (ma nella partita ci sono anche i Comuni), ponendo la norma prima della polemica. Professore, tra Stato e Regioni i botta e risposta non sono mancati.

Come sono regolati i rapporti?

«Occorre partire dalla Costituzione. Tra Stato e Regioni c’è una suddivisione di compiti stabilita dall’articolo 117, modificato a favore delle Regioni nel 2001. Modificato, appunto, ma poi reinterpretato: la suddivisione effettiva è un po’ diversa da quella che appare. In materia di tutela della salute, cioè il tema di questi giorni, si dice che lo Stato deve stabilire solo i principi generali ispiratori della materia, e che ciascuna regione stabilisce tutte le altre regole. È così fino a un certo punto, perché lo Stato ha sostanzialmente fissato i binari su cui ogni regione si è incamminata».

A proposito di tutela della salute, c’è la questione delle zone rosse. Il riferimento che tutti fanno è a una legge del 1978: in sintesi, di cosa si tratta?

«La legge a cui ci si riferisce è la n. 833 del ’78, che istituisce il Sistema sanitario nazionale. Al suo interno, l’articolo 32 stabilisce che in casi di emergenza è possibile che siano adottate delle ordinanze per disciplinare il comportamento sia delle persone sia degli apparati pubblici, appunto per il fine della tutela della salute. Come, appunto, la prevenzione del diffondersi di epidemie».

E chi può firmare queste ordinanze?

«L’articolo individua diversi livelli, connessi all’ambito territoriale dell’emergenza: se l’emergenza sanitaria ha carattere nazionale o sovraregionale, tocca al ministro della Salute; se l’emergenza riguarda un’area specifica di una Regione, spetta al presidente della Regione; a livello più locale ancora, in caso di un singolo Comune, spetta al sindaco. Questi poteri, però, si congiungono a un’altra questione».

Quale?

«Nel 2018 è stato approvato il nuovo codice della Protezione civile (il decreto legislativo 1/2018, ndr). Analogamente alla legge del 1978, questo codice prevede che in caso di emergenza si possano adottare delle ordinanze il cui contenuto serva per affrontare, appunto, le conseguenze di queste situazioni che mettono a rischio la popolazione. Solitamente si tratta di calamità naturali, ma l’emergenza sanitaria in corso pare sovrapponibile. Le ordinanze stabilite da questo codice possono essere adottate dal presidente del Consiglio, che lo ha fatto più volte tramite lo strumento dei Dpcm, se l’emergenza è su scala nazionale, sentiti i pareri dei ministri competenti o dei rappresentanti delle regioni. Se l’emergenza è locale, invece, le ordinanze possono essere adottate dai presidenti di Regione o dai sindaci». Gli strumenti normativi per creare le zone rosse, insomma, sono addirittura due? «Le due normative, quella del 1978 e quella del 2018, sono univoche nel dire che occorra assegnare il potere a un’autorità specifica, cioè il capo dell’esecutivo a vari livelli».

Quindi, oltre che al governo, anche ai presidenti di Regione e ai sindaci. Obiezione nota: ma se queste autorità, cioè presidenti di Regione e sindaci, non dispongono di proprie forze dell’ordine, come possono militarizzare un territorio?

«In ipotesi, il presidente di Regione dispone la zona rossa e poi chiede alle forze dell’ordine di fare in modo che le sue disposizioni siano rispettate: ovviamente non dispone direttamente delle forze dell’ordine, ma nell’ambito della collaborazione tra apparati pubblici può chiedere ai ministeri competenti o al prefetto di metterle a disposizione».

Ma si possono militarizzare Comuni o pezzi importante di una Regione?

«La legge prevede appunto ordinanze che siano “urgenti”, e sull’urgenza la definizione pare chiara, e “contingibili”, cioè relazionate a reagire a una situazione contingente, ma anche proporzionate. Queste ordinanze sono poi dette “innominate”: possono avere contenuti decisi al momento dell’adozione. Di fatto è quello che è successo con le misure messe in atto attraverso le prime zone rosse nel Lodigiano e in Veneto. Siccome il meccanismo ha funzionato, è stato copiato per altre situazioni. Va però fatta una precisazione».

Prego.

«A monte, c’è una decisione precedente: il 31 gennaio il governo aveva dichiarato lo stato di emergenza a livello nazionale, ai sensi del codice della Protezione civile. È il presupposto di tutto. Le leggi di cui abbiamo parlato consentono l’esercizio di questi poteri eccezionali, di adottare ordinanze in deroga a leggi vigenti». Il dibattito, insomma, resta effervescente. «Tra studiosi ci stiamo già confrontando, sempre restando sui contenuti. Le posizioni sono diverse, non dobbiamo stupirci che lo siano anche tra i politici. Il dato certo è che ci siamo trovati di fronte a una situazione inedita, per ampiezza e gravità».

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