Allarme Libia
Il ruolo europeo

«L’embargo sulle armi è una barzelletta». Non poteva essere più chiara Stephanie Williams, vice di Ghassan Salamè, l’inviato speciale dell’Onu per la Libia, nel lanciare l’allarme sulla situazione nel Paese, dal 2011 devastato dalle turbolenze del dopo-Gheddafi e negli ultimi anni dal violento scontro che oppone il governo tripolino di Fayez al-Sarraj (l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale) alle truppe del generale Khalifa Haftar, ormai padrone di due terzi del territorio.

La Williams è intervenuta alla Conferenza di Berlino, dedicata appunto alla crisi libica, non solo per stigmatizzare il traffico di armamenti che alimenta il conflitto ma anche per fare il punto sulla principale iniziativa della Conferenza stessa, ovvero la proposta di tregua lanciata giusto un mese fa. La tregua più o meno regge, ha fatto sapere l’Onu, anche se si sono registrate 150 violazioni «di terra, mare e aria». Il grande problema è tutto qui. Si possono prendere ottime decisioni, ma chi garantisce che i contendenti, e i Paesi che li appoggiano, poi le rispettino? Per questo, da più parti, Italia compresa, si chiede un sistema di monitoraggio per registrare gli eventi e attribuire le responsabilità. E, soprattutto, provvedimenti concreti per interrompere il flusso delle armi verso la Libia e i combattenti dell’una e dell’altra parte.

Il nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha detto che «l’Italia e la Ue tornano protagoniste». È vero, ed è cosa buona e giusta. Questo avviene, però, dopo un lungo periodo di incertezze e di inerzia (quello che Al Sarraj non cessa di rimproverare un po’ a tutti) che ha permesso a Russia e Turchia, attori poco avvezzi a fare complimenti, di inserirsi in una guerra che, per l’Italia e l’Europa, è assai più vicina e insidiosa del conflitto nel Donbass ucraino. Putin ha mandato i mercenari a sostenere Haftar, Erdogan ha distolto parte dei terroristi islamisti che combattono per lui nel Nord della Siria e li ha spediti a proteggere Al Sarraj. Con Haftar ci sono anche Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Francia. Con Al Sarraj, il Qatar e l’Algeria, oltre alla cosiddetta «comunità internazionale», che però si guarda bene dal fornirgli il tipo di «aiuto» che gli offre Erdogan.

Tutti i Paesi fin qui citati da un lato mettono mano alla crisi libica, aggravandola, e dall’altro partecipano ai tentativi di risolverla, complicandoli. Perché prima di mettere d’accordo Haftar e Al-Sarraj bisognerà trovare un’intesa tra i loro sponsor, che hanno diversamente investito sulla vittoria di questo o di quello. O che, come l’Italia, hanno un interesse strategico, economico addirittura geografico, nel lavorare per fermare la guerra. Che fare, dunque, visto che il principio è uno (basta guerra) ma gli interessi sono molti e diversi?

Il ministro Di Maio ha ragione, la prima cosa concreta da fare è implementare l’embargo sulle armi. Ma anche qui, come? Si è molto parlato di resuscitare la missione Sophia per il pattugliamento del Mediterraneo, che dall’aprile del 2019 (da quando cioè l’Italia adottò la politica dei «porti chiusi») è stata sospesa quanto alle navi e fatta proseguire con sei aerei e un drone. Con questi mezzi ridotti, ma anche con quelli più ampi dell’origine, Sophia non può sperare di bloccare il traffico delle armi, che raggiungono la Libia anche via aria e via terra. Quello che servirebbe, invece, è un pattugliamento dei cieli della Libia, con satelliti e droni, in modo da tracciare ogni spedizione illecita. È la soluzione indicata anche dall’Italia, che tra l’altro teme che un’eventuale ricomparsa delle navi «europee» possa portare con sé anche un aumento dei flussi migratori. Che sarebbero diretti in gran parte verso l’Italia, e con l’aria che tira in tema di redistribuzione in altri Paesi... Per una simile operazione, però, servono un coordinamento e una collaborazione che possono nascere solo da una grande unità d’intenti. L’Europa saprà, almeno in questo caso, trovarla? O, per dirla in parole semplici, si farà mangiare nel piatto da Russia e Turchia?

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