Autonomia regionale
la sfida più difficile

È molto probabile che nell’anno che si è appena aperto la questione più divisiva che la maggioranza giallo-verde e il governo che essa sostiene dovranno affrontare sarà quella dell’autonomia delle Regioni. Come è noto, il governo ha deciso che entro il 15 febbraio si sigleranno le intese per dar seguito alle richieste di maggiore autonomia (sulla base del titolo V della Costituzione) sorrette in Lombardia e Veneto, governate dalla Lega, da due referendum consultivi e nell’Emilia Romagna del centrosinistra dai deliberati del Consiglio regionale. Si tratterà dell’avvio di un processo politico e istituzionale: già si sa che il Piemonte è pronto alle stesse richieste, come la Liguria, la Toscana, le Marche, l’Umbria. Quando il percorso sarà avviato, il Parlamento dovrà ratificarlo con un voto a maggioranza qualificata. Come detto, è la Costituzione, dalla riforma del 2001 (governo Amato) a prevedere che si possano attribuire alle Regioni ulteriori competenze e maggiori margini di autonomia finanziate dall’Erario.

Se tutte queste Regioni, prevalentemente del Centro-Nord, chiedono di potersi amministrare in buona parte da sole, la prima considerazione da fare è che è in corso un processo specularmente opposto a quello disegnato dal referendum perso da Renzi: allora la spinta era a «ricentralizzare» le competenze, riportando a Roma vasti settori dell’amministrazione sottraendoli alle Regioni per dare omogeneità alla politica nazionale. Ora viceversa si tende a decentrare, a spogliare i ministeri di molte prerogative per affidarle ai governatori.

Va osservato semmai che un simile processo non avviene nell’ambito di una riforma federalista dello Stato, come pure si era tentato un tempo, in grado di equilibrare lo Stato, le Regioni e le autonomie locali in un quadro che abbia un senso, una logica oltre che un bilanciamento dei poteri. Questa volta il processo autonomistico avviene alla spicciolata, sulla spinta delle due Regioni più forti, più ricche. Sulla spinta di Lombardia e Veneto, seguite dall’Emilia Romagna, le punte più avanzate del Paese, anche le altre «piccole capitali» chiedono mani più libere. E ognuno costruisce la propria autonomia con un proprio criterio. Inoltre, proprio perché questo processo autonomistico nasce da Nord, finisce per essere facilmente etichettato come «la separazione dei ricchi dai poveri»: il Settentrione che si è messo in gran parte la crisi alle spalle chiede di essere alleggerito dal peso di un Sud in perenne rincorsa verso la modernità. Ecco il punto politico che suscita già le prime reazioni a Sud, come quella del governatore della Campania De Luca che ha chiesto un incontro al presidente del Consiglio: «È a rischio l’unità nazionale», spiega. E non è l’unico che comincia ad alzare la voce. Da Sud a Nord la battaglia si fa politica. Anche (e soprattutto) dentro la maggioranza.

La Lega del Lombardo -Veneto che vuole l’autonomia è la stessa che ha dovuto accettare una legge di Bilancio con dentro il reddito di cittadinanza («Che piace ad un’Italia che non ci piace», dixit Giorgetti) bandiera di un movimento Cinque Stelle che raccoglie soprattutto al Sud i suoi voti. L’idea di un trasferimento di soldi pubblici «a chi sta sul divano» nel Mezzogiorno non piace agli elettori leghisti. Che ora però hanno in mano la carta dell’autonomia da far valere. Quella stessa carta che gli elettori grillini meridionali vedono come la manifestazione dell’«egoismo del Nord». Come si incontreranno queste due spinte? Il governatore Attilio Fontana in una intervista ha detto: «Se non passa l’autonomia il governo cade». Parole molto chiare. Soprattutto se messe in relazione alle elezioni europee di maggio in cui la Lega si aspetta di raddoppiare i voti delle politiche 2018 e i grillini temono di perdere il loro primato. Ecco perché l’autonomia regionale sta per diventare la questione politica numero uno del 2019.

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