Bergamaschi solidali
fino a dare la vita

Dare la vita per salvare il prossimo. Non c’è testimonianza umana più grande. Ce lo ricorda, se ce ne fosse bisogno, Diego Bianco, 46 anni, di Montello, operatore del 118 all’ospedale Papa Giovanni, morto ieri di coronavirus dopo aver frequentato ambienti dove viaggia la pandemia. Lascia la moglie e un bambino di sette anni. Riemergono dalla memoria le sei suore delle Poverelle uccise nel 1995 in Congo da un’altra epidemia, l’Ebola. Consapevoli del pericolo nel quale si trovavano, decisero di restare in Africa tra il «loro» popolo per assisterlo.

Due storie diverse per luoghi, temperamenti e motivazioni delle persone, ma accomunate da una disponibilità: il sacrificio di sé nel praticare il proprio servizio. Sarebbe da stolti meravigliarsi. Storicamente la Bergamasca ha sempre dato prova di generosità e di capacità di mobilitazione quando c’è una richiesta d’aiuto in seguito a una grave emergenza. È successo per l’alluvione del Polesine nel 1951, quando si viveva ancora nelle ristrettezze del post Seconda guerra mondiale, ma è accaduto per i terremoti in Friuli (1976), in Armenia (1988) e per quelli più recenti nel Centro Italia.

Ma è avvenuto anche per lo tsunami nel sud est asiatico (2004) e per il soccorso alle popolazioni vittime di conflitti (Bosnia e Kosovo). Una generosità che si è espressa in donazioni di denaro ma anche nella messa a disposizione di braccia e di intelligenze: alpini, Protezione civile e volontari cattolici e non credenti che sono partiti per le terre ferite, anche a rischio della vita. Non siamo più buoni degli altri, ma persiste nei bergamaschi un retaggio cristiano (eravamo pur sempre la «provincia bianca» d’Italia) e una cultura del lavoro e delle opere che ci porta a rispondere ai bisogni senza inerzie. Siamo più bravi a dare che a chiedere.

Oggi la gravissima emergenza è in casa e fa un certo effetto registrare ancora una volta la grande solidarietà contro un male, il coronavirus, che è entrato nella nostra provincia, la più colpita d’Italia. Il sistema sanitario, e non poteva essere diversamente, è andato sotto stress. Con il passare dei giorni e con l’aumento dei contagi le terapie intensive sono diventate insufficienti e si è dovuto mettere mano alla riorganizzazione degli ospedali, privi del numero di attrezzature adeguate. Le testimonianze di medici e infermieri, che danno l’anima nella cura dei pazienti, ha fatto scattare la scintilla della solidarietà.

All’inizio anche in forme un po’ disordinate, come chi portava cibo al Papa Giovanni. Ma con l’apertura di conti sui quali versare contributi, è arrivata una pioggia di versamenti, dagli ambienti più disparati: dalle fondazioni bancarie ai singoli cittadini, dai tifosi della curva nord atalantina alle aziende e alle società sportive. In redazione sono arrivate lettere di chi, con spirito burocratico, ci ha fatto notare che già paghiamo tasse per avere accesso a una sanità efficiente. L’Italia destina al settore l’8,9% del Pil, tra pubblico e privato. Secondo un rapporto di Eurostat la media europea è del 9,9%. Ma l’emergenza coronavirus travalica la gestione ordinaria delle patologie: siamo di fronte a una pandemia nuova che richiede un sostegno alla sanità pubblica perché lo stress non diventi tracollo. Un presidio garantito da medici e infermieri che in questi giorni tremendi hanno messo in luce doti professionali ma soprattutto umane.

E poi ci sono le persone che da volontarie aiutano a consegnare la spesa a chi vive solo e le famiglie in quarantena: hanno risposto all’appello in 400 solo nel capoluogo. Nella nostra provincia secondo l’ultima rilevazione Istat 104.000 cittadini (il 10% della popolazione bergamasca) operano in 4.768 organizzazioni, di cui 4.300 associazioni. Poi ci sono decine di gruppi informali, come quelli che sostengono i missionari nei Paesi poveri a realizzare scuole, ospedali e ambulatori. Le associazioni hanno un problema di ricambio generazionale e questa emergenza potrebbe dare una risposta al problema: l’oratorio di Nembro cercava 10 volontari per recapitare la spesa ai nonni, all’appello hanno risposto 70 giovani.

Un altro lascito che ci auguriamo venga ereditato da questa emergenza senza precedenti dal dopoguerra, è la capacità di fare comunità. Anche la Bergamasca negli scorsi anni ha subìto l’alienazione della cultura individualista ed egocentrica, aggravata dalla crisi economica che ci ha resi più sospettosi e aggressivi. Ma proprio in questi giorni gravati dall’invito pressante (e rispettato) a stare in casa, scopriamo quanto ci mancano le relazione, la vita sociale e i luoghi pubblici abitati da sconosciuti, ma che sono invece il nostro prossimo. Quanto sia importante la libertà, che non può essere vissuta senza il senso della solidarietà e della responsabilità, altrimenti decade nel puro arbitrio. Le istituzioni pubbliche in questi giorni hanno ripetuto spesso che «nessuno sarà lasciato solo». Sarebbe bello se fosse sempre così.

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