Bolsonaro e il virus
Una lezione da imparare
(e non solo dai populisti)

Quando la pandemia ha fatto irruzione in Europa, le case editrici si sono affrettate a pubblicare volumi sulla peste nera del Medioevo, la spagnola d’inizio Novecento e l’epidemia di ebola degli anni Settanta. Possiamo quindi sperare che un giorno gli storici sapranno spiegare come mai, a dispetto delle notizie in arrivo dalla Cina (pur scarse e forse confuse ad arte) ma soprattutto di quanto succedeva in Italia, così tanti Paesi, con le rispettive classi politiche e comunità scientifiche, abbiano inseguito sogni vani e strategie perdenti che sono costati decine di migliaia di morti.

Oggi l’epicentro del Coronavirus sono le Americhe. Su quasi 12 milioni di contagiati nel mondo, più di 3 milioni sono in America Latina e poco meno di 3 negli Usa, dove peraltro si sono già registrati 131 mila morti. Nella parte Sud del continente spicca il caso del Brasile, dove si contano 1,6 milioni di contagiati e 65 mila morti. Il presidente Jair Bolsonaro è stato tra i più fervidi negazionisti. Per lui il virus era una «gripezinha», un’influenza da poco, le mascherine non servivano, palestre e scuole dovevano rimanere aperte, le terapie intensive strapiene solo un bluff. Ora lui stesso è malato, ma il punto è un altro. Il Brasile è grande e popoloso (212 milioni di abitanti) ma ha anche un sistema sanitario con 300 mila addetti, che aveva guadagnato grande prestigio nella lotta contro l’Aids e che di certo poteva fare di più e meglio. Questo è un caso in cui i disastri del potere politico sono lampanti: Bolsonaro, per non farsi mancare nulla, ha silurato due ministri della Sanità che lo invitavano alla prudenza, poi ha nominato al loro posto un ex generale dell’esercito. Resta la domanda da affidare agli storici: perché?

Una vicenda simile è quella degli Stati Uniti di Donald Trump, ora il Paese con il maggior numero di morti da virus. Il Presidente, nelle prime settimane, si è affrettato a descrivere la pandemia come un’invenzione dei Democratici e poi come un complotto della Cina, mettendo sul piatto anche gaffes e strafalcioni ormai indimenticabili. A Trump si può attribuire, oltre a una bocca troppo larga, anche la volontà di non deprimere troppo l’economia nazionale nell’anno delle elezioni presidenziali. Ma non è certo lui a decidere sulle strategie per la salute dei cittadini. È quindi possibile che la pandemia abbia intercettato anche alcuni punti deboli del sistema sanitario americano.

Questi casi, i più eclatanti, hanno spinto molti a puntare l’indice sui politici «populisti». Con Bolsonaro e Trump può passare. Ma che dire di Boris Johnson, il premier inglese? Intanto essere pro-Brexit non equivale a essere populisti. Ma soprattutto, nei suoi discorsi Johnson non ha mai parlato della famosa e ormai famigerata «immunità di gregge». L’hanno fatto gli scienziati, i «competenti» a cui si era affidato, precipitando il Paese in una tragedia da quasi 300 mila contagiati e 45 mila morti. Scienziati come quelli ai quali ha dato retta la per nulla populista Svezia (Governo di coalizione socialdemocratici-verdi) che, con 10 milioni di abitanti e la strategia del «tutto aperto», ha avuto 5.500 morti, in proporzione dodici volte più della Norvegia, sette più della Finlandia e sei più della Danimarca che invece avevano subito chiuso tutto.

Per non parlare di Israele e Australia, che avevano già cantato vittoria e ora tornano al distanziamento sociale e all’isolamento di milioni di persone, come nei mesi più bui. Paesi assai lontani l’uno dall’altro, con Governi di orientamento a volte opposto e culture e abitudini molto diverse si sono avviati, con modalità analoghe, verso lo stesso disastro. Un mistero. Uno dei tanti di questo virus.

© RIPRODUZIONE RISERVATA