Brexit e migranti
Chi paga il conto

«Riprendere il pieno controllo delle frontiere per la prima volta in decenni». È questo, dunque, il mantra della Brexit targata Boris Johnson. Il premier, infatti, ha reso note le linee guida in tema di immigrazione che spera di tramutare in legge al più presto e che dovrebbero entrare in vigore dal 2021, ovvero dopo il periodo di transizione che, entro e non oltre fine 2020, dovrà portare il Regno Unito e l’Unione Europea a fissare i criteri dei loro rapporti futuri, soprattutto dal punto di vista finanziario ed economico.

In sintesi, il progetto prevede che si potrà entrare nel Regno Unito per lavorare solo se, in una speciale classifica a punti, sarà raggiunta dal candidato la fatidica quota 70. A portare punti saranno la conoscenza della lingua, le qualifiche professionali (privilegiati scienziati e accademici), l’aver già ottenuto un posto di lavoro con salario superiore alle 26.600 sterline (poco oltre 30 mila euro) l’anno, avere padronanza di un mestiere di cui scarseggiano gli specialisti nel Regno Unito. In ancor meno parole: niente lavoratori generici e poco qualificati, niente immigrati che non hanno un passato professionale ma vorrebbero costruirsi un futuro a Londra e dintorni ma solo professionisti di eccezionale spessore (quelli che ogni Paese vorrebbe avere o tenersi) o artigiani che il sistema inglese non sa più produrre.

I cittadini della Ue potranno fermarsi nel Regno Unito anche quando la Brexit entrerà pienamente in vigore e, come dichiarato dal governo inglese, saranno proprio loro a riequilibrare il sistema. Rassicurazione vana per tutti gli imprenditori inglesi, grandi e piccoli, che temono la scomparsa della manodopera a basso costo, per esempio nei settori del turismo, della ristorazione e anche della sanità e già protestano.

Questa ossessione per le frontiere da parte di un Paese che per lungo tempo ha fatto della multietnicità e del multiculturalismo una specie di manifesto nazionale, con Londra come vetrina internazionale, non può non sorprendere. Ma solo di primo acchito. Perché la «riforma Johnson» dell’immigrazione somiglia molto non solo alle normative già in vigore in altri Paesi di indubbia fede democratica e liberale (per esempio Australia e Canada) ma soprattutto a norme che vengono discusse anche all’interno dell’Unione Europea. I punti, le qualifiche professionali, i mestieri di cui c’è bisogno... Se non fosse impossibile verrebbe da dire che Johnson sta copiando quasi pari pari la riforma dell’immigrazione che Macron ha da poco presentato ai francesi.

Ora, è fuor di dubbio che la gestione dei flussi migratori sia un problema reale e di grande importanza, nel presente e ancor più nel futuro. Bisognerebbe però stare attenti ai rimedi che si scelgono. Normative come quelle ipotizzate in Francia e nel Regno Unito, se e quando applicate, avranno effetti collaterali non da poco. Il primo sarà di drenare (allettandole con un’emigrazione facilitata) le energie migliori e le persone più preparate dai Paesi dell’Africa e del Medio Oriente, dove resteranno quelle meno qualificate. Queste, meno preparate anche a gestire le difficoltà dei loro Paesi, finiranno inevitabilmente col generare flussi migratori ancor più disperati. Il secondo sarà di far crescere ancor più le disuguaglianze e le disparità di reddito in un mondo in cui otto persone dispongono della stessa ricchezza della metà più povera del pianeta (3,5 miliardi di persone).

Può darsi che tutto questo a Johnson e Macron non interessi. Dovrebbe però interessare un poco all’Europa e molto a noi italiani, che con il problema delle migrazioni abbiamo avuto e avremo in futuro molto a che fare.

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