Burocrazia, la più grande
azienda del Paese

Le imprese hanno per la gestione dei rapporti con la pubblica amministrazione un costo quantificabile in 57 miliardi. Sono dati dello Studio Ambrosetti. La corruzione secondo le valutazioni della Corte dei Conti dovrebbe pesare nell’ordine di 60 miliardi. Conti ovviamente approssimativi ma che indicano un problema: le imprese devono ogni giorno battersi sul mercato con un braccio legato dietro la schiena. Hanno costi da sostenere in più. Per contro la spesa pubblica primaria dall’entrata dell’Italia nell’euro è cresciuta soprattutto nei primi anni del nuovo secolo del 3% rispetto al Pil.

Sarebbe dovuta calare per facilitare il rientro dal debito in virtù dei bassi tassi di interesse garantiti dalla nuova moneta. Ma in Italia si è pensato che con l’euro i conti pubblici fossero messi in sicurezza dagli altri partner in salute finanziaria e quindi si è tornato a spendere. Morale: il debito aumenta ma la burocrazia resta. Stiamo parlando della maggior azienda del Paese con il 20% degli occupati che negli ultimi anni, sono dati del massimo esperto in pubblica amministrazione in Italia Sabino Cassese, ha avuto invero un calo degli addetti dell’8%, e ha anche perso in preparazione perché il suo personale laureato è al 40% mentre le funzioni che spesso sono richieste agli uffici pubblici implicano una qualificazione se non accademica però specifica.

Nonostante la spesa pubblica sia cresciuta, non sono tuttavia cresciuti gli stipendi e quindi dagli insegnanti ai vigili del fuoco vi sono competenze, queste sì determinanti per lo sviluppo del Paese, sottopagate. Va anche detto che il semplice impiegato che non sempre gode di considerazione nella percezione pubblica diventa poi decisivo: da lui spesso dipende il procedere e il buon esito della pratica. Se è sottopagato e gode di bassa considerazione la motivazione scende, il rendimento anche e aumentano i rischi. Chi non è retribuito equamente in impieghi però determinanti per la vita pubblica di una comunità è più facilmente esposto alle tentazioni di una mazzetta e della classica busta sottobanco. È cronaca che ci accompagna quotidianamente e che pesa sulla competitività del Paese. La politica percepisce il problema ma lo affronta non con la determinazione che sarebbe per esempio di un imprenditore che deve rendere efficiente la sua azienda. Il motivo è che anch’essa ha necessità di dare spazio ai suoi addetti e ai suoi accoliti. Il cosiddetto spoils system, ovvero il fatto che ad ogni nuovo governo subentrino i fedelissimi del partito o del nuovo ministro, fa sì che le competenze vengano sparpagliate e si perda la continuità necessaria per perseguire i progetti in atto.

In tal senso si vocifera della confusione che regna nel ministero dello Sviluppo economico dove l’intero apparato dirigenziale è stato cambiato dal ministro Luigi Di Maio e il successore sembra faccia fatica a districarsi preso com’è da una crisi aziendale dopo l’altra. Ogni governo è ossessionato dall’idea di marcare la differenza con il precedente e quindi procede nel promuovere iniziative, progetti di legge e decreti legge che poi rimangono nei cassetti. Ogni decreto, ogni legge ha bisogno di essere messa in pratica e quindi deve avere istruzioni attuative. Solo per il governo gialloverde del Conte 1 sono 300 i decreti che attendono norme che dicano come applicarli. Il problema è l’annuncio. L’esecuzione è noiosa, troppo vicina alla quotidianità non fa sognare. Come dice Giovanni Di Lorenzo, nome italianissimo e direttore del settimanale tedesco «Die Zeit» in una delle sue interviste a Silvio Berlusconi: voi giornalisti pensate che la gente sappia tutto e invece non sa niente. Vero ma vuole soluzioni.

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