Carige, mercato
e statalismo

Ci risiamo. È di nuovo necessario intervenire per salvare un pezzo del nostro sistema bancario. Anche per Carige i guai vengono da malinteso localismo basato su vertici inamovibili e consorterie ristrette, opache e chiuse. Una grande banca che ha un valore oggi di 80 milioni (ma un milione di clienti e 4.200 dipendenti) pur dopo aumenti di capitale miliardari, cambi di proprietà, girandole di manager, fino all’autunno triste di un mercato che l’ha abbandonata, e ora all’inverno angoscioso di un veloce Consiglio dei ministri notturno, che apre paracadute alla chetichella, senza propaganda e molto imbarazzo. Riusciamo a intravedere ben pochi elementi positivi, in una vicenda che tutti speriamo non riproponga scenari già visti, con l’aggravante che non si tratta di una Etruria che valeva l’1% dell’intero sistema bancario e si prestava soprattutto a giochi elettorali, malignità familistiche e caroselli stradali, ma senza gravi danni sistemici. Oggi, per dire, Etruria sta girando bene, messa in mani capaci.

Positiva stavolta è la tempistica, perché Carige viene illuminata dai riflettori quando ancora non tutto è perduto. Il giro precedente è stato avviato molto tardi e questa è forse l’unica differenza importante di una vicenda del tutto parallela. Il merito è probabilmente della Bce (ah la cattiva Europa…) con il primo commissariamento della sua storia. Bankitalia non fu altrettanto tempestiva. L’altro motivo di speranza positiva è appunto legato al fatto che questa lezione di realismo possa servire a capire che quello del risparmio è un settore troppo delicato per trasformarlo sistematicamente in un terreno di speculazione partitica, in un’orgia dilettantistica di vocianti talk show e invettive social.

Sperando anche che si riesca finalmente a capire la differenza tra investitori e risparmiatori, i primi essendo (nobilmente) degli speculatori e gli altri dei difensori dei propri sacrifici. E magari evitando di chiamare mamma Stato (1,5 miliardi nella manovra 2019) a «risarcire» una categoria che rischiava sapendo di rischiare, il resto – e cioè i veri truffati – essendo di competenza della magistratura e non a carico dei contribuenti. Il governo ha scelto una linea di prudenza condivisibile, che solo un’ideologia cieca potrebbe chiamare salvataggio dei banchieri, se mai di correntisti e lavoratori. Prima di tutto si tenterà di ripartire dal fatale 22 dicembre in cui il principale azionista, la famiglia Malacalza, rifiutò l’aumento di capitale di 400 milioni (ne aveva già persi altrettanti), lasciando così a mezz’aria il fondo di garanzia di 320 milioni messi a disposizione da 90 Banche per creare un ponte, peraltro ben remunerato (16%), perché i soldi servivano a novembre proprio mentre esplodeva lo spread e i risparmiatori scappavano a gambe levate. Garanzie che le banche hanno offerto non per bontà d’animo ma perché se va in malora una singola banca sono guai per tutti. Una sciocchezza da demagoghi da strapazzo quella di pensare - come si è abbondantemente propalato - che sia questione da poteri forti che non riguarda il cittadino comune, in realtà il vero danneggiato (mutui, prestiti alle imprese).

La speranza è che il piano di capitalizzazione dei Commissari funzioni grazie alla garanzia dello Stato sulle emissioni. Se andasse così, si consiglia di trarre tutti un bel sospiro di sollievo, evitando però festeggiamenti al balcone. Il problema resta serio. Probabile l’accompagnamento ad un matrimonio di interessi con altra banca, italiana o straniera, alla faccia del sovranismo. Se poi anche tutto questo non bastasse, il governo ha già predisposto, con i soldi di tutti, una pista di atterraggio modello Monte dei Paschi, da chiamare con il suo nome, nazionalizzazione. Sarebbe un finale non proprio lieto, anche se - temiamo - conforme ad un certo statalismo che caratterizza l’attuale governo, che sta mettendo le mani un po’ ovunque (Coni, progetti Cassa depositi e prestiti, politicizzazione di Anas, Inps, Istat e via dicendo). Il sistema bancario italiano è frammentato, tecnologicamente arretrato, poco competitivo. Ha bisogno di continuare con le riforme avviate con Popolari e Rurali, non di spartizione di poltrone.

© RIPRODUZIONE RISERVATA