Codice degli appalti
La legge non basta

Le parole «appalto pubblico», nell’immaginario collettivo, evocano immediatamente un’altra parola: «corruzione». Raramente, infatti, le vicende legate a un appalto tra un privato e un’amministrazione pubblica non hanno suscitato sospetti, se non addirittura certezze di avvenuta «dazione» - come si è iniziata a chiamare dagli aurei tempi craxiani - la «mazzetta», offerta a un pubblico funzionario, oppure da costui pretesa per «ungere le ruote» della decisione pubblica.

Quando si parla di appalti, in specie quelli di notevoli importi finanziari, si deve pensare non soltanto alle grandi infrastrutture (un ponte, un ospedale), ma anche alla gestione da parte di una società privata di un servizio (la mensa o le attività di pulizia in un’amministrazione pubblica). In ognuno di questi casi ci si trova innanzi a corposi interessi finanziari da parte pubblica e privata: la società che vuole aggiudicarsi un appalto concorre sulla base delle sue competenze; l’amministrazione pubblica è tenuta a scegliere in modo imparziale il soggetto che offra le migliori garanzie di un servizio (o di un prodotto) coerente con le esigenze della collettività.

La legislazione tesa a garantire la correttezza delle procedure di appalto pubblico è antica quasi quanto il nostro Stato. Il pilastro iniziale è l’allegato F della legge di unificazione amministrativa del 1865. Nell’arco di un secolo e mezzo le norme si sono succedute con ritmo costante ed esiti altalenanti. Non era la bontà (o meno) delle leggi a determinare la crescita e la diminuzione della corruzione. Hanno sempre avuto peso maggiore la qualità e l’integrità del tessuto civile, del ceto politico, dei pubblici funzionari. La normativa attuale sugli appalti è corretta in termini di principi: trasparenza degli atti amministrativi, qualificazione e regolazione del mercato e delle stazioni appaltanti, indipendenza dei commissari di gara. Le procedure però sono complesse e a volte non garantiscono l’effetto voluto dalla legge. L’istituzione dell’Anac è soltanto l’ultimo anello di una miriade di tentativi di trovare la formula più adatta. A molti il triplice ruolo dell’Anac (regolatore, controllore, organo sanzionatorio) non piace, perché viene giudicato troppo stringente. Le proposte di modifica del Codice degli appalti si muovono quindi nel senso di «liberare le maglie». L’argomento è di facile presa: con minori vincoli si fa prima e si facilitano le imprese nella partecipazione alle gare. Terreno scivolosissimo, poiché rischia di fare molti danni. Inutile gettare tutto all’aria: ci sono procedure e modalità da rivedere, ma accorre farlo senza fretta, con sapienza giuridica e lungimiranza politica.

Di fronte a un quadro così poco consolante, molti finiscono per ritenere che siamo un popolo di corrotti. Opinione non soltanto sbagliata, ma fuorviante. Nelle amministrazioni pubbliche esistono persone corruttibili, altre che utilizzano l’arma della concussione per forzare la mano a chi partecipa a una gara d’appalto, ma anche funzionari scrupolosi e onesti. Così nel mondo d’impresa e degli affari. Per combattere il dilagare dei fenomeni di corruzione le leggi, i regolamenti, i controlli rigorosi, sono indispensabili. Ma non bastano. Occorre cambiare la mentalità rispetto alla piaga sociale della corruzione. E si può farlo solo se si parte dai luoghi della formazione dei giovani: le scuole. Mediante un lavoro capillare di educazione alla legalità. In Italia negli ultimi decenni si sta facendo molto; i poteri pubblici devono incentivare i lodevoli sforzi compiuti da associazioni e altri soggetti impegnati su questo terreno. Servono buone leggi - chiare, attuabili, efficaci – e organi di controllo in grado di svolgere proficuamente il loro lavoro. Ma serve ancora di più la diffusione di una cultura della legalità. Benedetto Croce sosteneva che la corruzione si combatte con la correzione.

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