Concilio Vaticano II
Attualità e urgenza

«Penserà forse qualcuno che s’è già parlato tanto del Concilio, da molti e in molti sensi: non sarebbe tempo di farla finita e di cambiare tema?». Così si interrogava Papa Paolo VI nell’Udienza generale del 15 dicembre 1965, a una settimana dalla conclusione dell’assise conciliare. E con la consueta acutezza rispondeva: «Lasciamo i commenti ai competenti, ai critici, agli storici; e invece di volgere lo sguardo al passato, noi guardiamo al presente, e un poco anche all’avvenire; ma non possiamo prescindere dal Concilio».

E continuava: «Il Concilio è un fatto che deve durare. Se davvero esso è stato un atto importante, storico e, sotto certi aspetti, decisivo per la vita della Chiesa, è chiaro che noi lo troveremo sui nostri passi ancora per lungo tempo; ed è bene che sia così. Il Concilio non è un evento effimero e passeggero, come tanti eventi nella cronaca della Chiesa e del mondo; è un evento che prolunga i suoi effetti ben oltre il periodo della sua effettiva celebrazione. Deve durare, deve farsi sentire, deve influire sulla vita della Chiesa, e cioè sulla nostra, se davvero noi vogliamo essere buoni e fedeli membri della Chiesa stessa».

A più di mezzo secolo di distanza, quelle parole conservano intatta la loro freschezza e appaiono davvero profetiche. In quello stesso discorso Papa Montini indicava due atteggiamenti possibili di fronte al Concilio: la pigrizia di chi pensa che nulla sia davvero cambiato e si possa quindi tornare alle abitudini precedenti; e lo stato d’animo di quanti vogliono sovvertire tutto, in un processo dialettico senza fine, che con il pretesto di adeguarsi ai tempi, finisce per impoverire e perfino tradire il depositum fidei, la tradizione di fede, di spiritualità e di vita cristiana che nel corso della storia lo Spirito ha suscitato nella Chiesa.

La tradizione va custodita non aderendo passivamente a verità astratte, ma lasciando che la forza affascinante del Vangelo si esprima in ogni tempo. Questa è l’eredità preziosa che Giovanni XXIII ha lasciato alla Chiesa. La sua decisione di indire il Concilio Vaticano II scaturisce da questa intuizione: se i concili dell’antichità furono decisivi per stabilire la fede su fondamenta solide, se il Concilio Tridentino cercò di reagire alle sfide lanciate da un mondo che si apriva alla modernità, al Concilio Vaticano II spettava l’arduo compito di trovare nuovi linguaggi per proporre la fede all’uomo contemporaneo. Questo è il «punctum saliens» indicato da Giovanni XXIII nel discorso inaugurale del Vaticano II. Non si tratta di ribadire posizioni teologiche consolidate ma di trovare un nuovo e più profondo approccio al tesoro della fede, in una fedeltà creativa.

Nell’Udienza generale del 2 settembre 1969 Paolo VI tornerà sull’argomento: nella Chiesa la novità si produce non da una rottura ma da una progressiva comprensione della Tradizione, da un ritorno costante alla sorgente più profonda, il Vangelo: «Nella vita cristiana, e nella Chiesa, la novità può avvenire per purificazione, operazione sempre in corso; per approfondimento: chi può dire di aver tutto capito, tutto valorizzato nel tesoro di parola, di grazia, di mistero, che portiamo con noi? Quanto può crescere ancora il cristianesimo per questa via! E poi per applicazione: non si tratta tanto di inventare un cristianesimo nuovo per i tempi nuovi, quanto di dare al cristianesimo autentico i riferimenti nuovi, di cui esso è capace e di cui noi abbiamo bisogno».

Riprendendo quanto disse il cardinale Montini, il 7 giugno 1963, nel duomo di Milano, commemorando il suo predecessore, potremmo chiederci: che cosa lascia il Papa del Concilio alla Chiesa e al mondo? Egli hanno segnato alcune traiettorie al nostro cammino futuro, che sarà sapienza, non solo ricordare, ma seguire. E lo stesso Paolo VI, poco più di un anno dopo la conclusione del Concilio, poneva interrogativi che risuonano ancora di bruciante attualità: «Noi vorremmo che ciascuno di voi cercasse di continuare la riflessione, e domandasse a se stesso: quale aiuto ha portato il Concilio alla mia fede, alla mia preghiera, alla mia ricerca di Dio, alla mia vita spirituale? E la domanda si può estendere al mondo, alla società del nostro tempo […]. A chi vorrà raccogliere queste interrogazioni e farle sue […], si apriranno orizzonti vastissimi e interessantissimi, quelli propriamente religiosi del Concilio» (Udienza generale del 26 gennaio 1966).

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