Cosi’ la Chiesa
guarda all’uomo

Cet. È la sigla di «Comunità ecclesiale territoriale». Se ne parla da quasi tre anni, fra noi preti ma anche fra i laici un po’ più vicini all’ambito ecclesiale. «L’Eco di Bergamo» ne sta parlando. Di che cosa si tratta? «Provo a dirlo con le mie parole», secondo l’ esortazione che a scuola ci veniva fatta perché non ripetessimo cose studiate a memoria senza averle capite. Cet: è una realtà che stiamo tutti cercando di capire e soprattutto di cominciare a realizzare e a vivere. È una proposta di cui il nostro vescovo Francesco ci sta parlando. Durante le visite vicariali degli anni scorsi l’ha accompagnata con una coppia di verbi, ambedue significativi, ma alla fine quasi contrapposti: il verbo produrre e il verbo generare.

Sono due verbi «in uscita». Ma il primo si lega facilmente al commercio e alla fine porta solo al produrre per consumare. L’altro è carico di delicatezza e di sorpresa, di gioia e di stupore perché una realtà nuova e originale nasce da un’altra vita, per rinvigorirla, per colloquiare con essa, per sentirsene contemporaneamente partecipe e diversa. Il vescovo ha anche proposto l’immagine di un albero grande e frondoso, che ha donato frutti in abbondanza. Ma rischia ormai la sterilità. Occorrerà che uno dei semi da lui prodotti si lasci coprire dalla terra per generare una nuova vita.

Dunque: un sostantivo e due aggettivi per dire una proposta. Comunità: ci indica con simpatia realtà vitale, di condivisione, di appartenenza, di partecipazione. L’ aggettivo «ecclesiale» ci riporta alla confidenza e alla familiarità con quel «qualcosa» che è la Chiesa; amata o contestata essa non è alla fine troppo lontana dalla nostra vita. «Territoriale»: perché? È il territorio in cui abitiamo, a cui apparteniamo, in cui ci orientiamo? Certamente, spazio e tempo sono le due principali coordinate del nostro esistere. Ma ci viene suggerito che forse il territorio è qualcosa di più, non è solo confini e metri quadri: il territorio è ciascuno di noi. Chi non ricorda la drammatica immagine di Ungaretti? «È il mio cuore il paese più straziato». Forse è proprio quest’ultimo aggettivo – territoriale – la chiave di lettura che colora e arricchisce e orienta nel modo giusto il sostantivo e l’aggettivo precedenti, sostanziandone la proposta.

Cercando con altri preti di capire quanto stiamo vivendo ho provato a proporre due riferimenti. Non ho trovato la condivisione di tutti. Ma provo a riproporlo. Ho avuto la ventura felice per qualche mese della mia vita di interessarmi di quella realtà che fu il Concordato del 1929 fra la Santa Sede e l’Italia. Novant’anni fa! Definisce una Chiesa che chiede e ottiene una presenza privilegiata, e rivendica significativi ambiti civili. Nessuno scandalo: era l’epoca e il pensiero. Nel 1984 una revisione profonda e una «rivoluzione copernicana» che si sostanzia in poche parole, frutto del pensiero del Vaticano II: «La Chiesa si impegna con la società civile alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese».

Non ambiti privilegiati, ma collaborazione perché gli uomini e tutta la società trovino una umanità autentica, veramente realizzata. È un ragionamento istituzionale, mi si dice, è una Chiesa che sottolinea la sua istituzionalità. Certamente: ma è soprattutto una Chiesa che esce dal privilegio e guarda all’uomo, alla sua interiorità, chiede solo di potergli annunciare con delicatezza il Vangelo che è tutto per l’uomo. Dopo trentacinque anni nessuno più ricorda che cosa sia quella revisione. Ma l’atteggiamento di una Chiesa che mette l’uomo al centro per aiutarlo a crescere, rimane. Mi sembra che la Cet respiri - in ambiti diversi – quel cammino verso l’uomo.

Secondo riferimento. Non v’è grande chiesa romanica nella quale manchi la rappresentazione del lavoro umano spesso inserito nella raffigurazione dei mesi. Tempo e lavoro: cioè l’uomo. L’uomo medievale, anche se peccatore e poco istruito nella fede, si sente e si sa partecipe della salvezza; e la chiesa romanica è la sintesi del modo di concepirsi dell’uomo che si sa salvato. La Cet non nasce certamente per riportare in modo analogo tempo e lavoro nella cattedrale. Come cristiani offriamo ogni giorno nell’Eucarestia il pane e il vino e diciamo che sono «frutto della terra e del lavoro dell’uomo», e chiediamo che diventino cibo e bevanda di salvezza. È il lavoro di tutti gli uomini del mondo raccolto in quel pezzo di pane e in quel sorso di vino: lì c’è tutto l’uomo. Usciamo di chiesa per stare accanto all’uomo nella sua concretezza, nel suo lavoro, nella sua gioia, nella sua disperazione. È lui il «territorio» nel quale il seme buono che è Gesù, Dio con noi, continua a seminarsi per renderlo autenticamente uomo. Penso che la Cet sia un po’ così, e così provo a mettermi in cammino per viverla.

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