Covid, è la donna
a pagare di più

L’emergenza economica post Covid è donna. Ce lo dice anche l’Istat nel suo rapporto annuale, uscito mentre l’Italia cerca faticosamente di uscire dalla tragedia della pandemia. Uno tsunami che ha acuito le diseguaglianze, bloccato l’ascensore sociale, aggiunto disagi a disagi preesistenti. Ancora una volta la tenuta del Paese è dovuta al «saldo rifugio dei valori familiari» e al senso civico degli italiani, ligi alle indicazioni del governo nei giorni del lockdown: il distanziamento, l’igiene, la riduzione di visite agli amici e ai «congiunti», gli spostamenti ridotti al minimo. Anche la cura dei figli è stata la prima occupazione, nei giorni in cui l’insegnante si poteva vedere al massimo sullo schermo di un computer, per l’85,9 per cento della popolazione.

Inutile aggiungere che il «digital divide» ovvero la differenza tra chi ha accesso alle nuove tecnologie digitali e chi no, ha fatto la differenza, e non è soltanto una questione anagrafica, anziani contro giovani, ma di censo, di chi può permettersi un pc e chi deve spartirselo con altri membri della famiglia organizzando turni, o addirittura nemmeno lo possiede.

Impressionante leggere che la probabilità di migliorare la propria condizione sociale è minore rispetto a quella di precipitare più in basso. I figli hanno meno speranze di raggiungere il tenore di vita dei genitori. In pratica non solo l’ascensore si è bloccato, ma ha cambiato direzione, scende verso i piani più bassi. E anche la bellissima notizia dei quindici bebè nati in un solo giorno all’ospedale di Cremona fa eccezione, quei pianti di neonati che abbiamo visto in tv dopo tanto dolore purtroppo non sono rappresentativi della situazione. Stando all’Istat la paura e l’incertezza della pandemia infatti porteranno entro il 2021 a un calo di 10 mila nuovi nati, passando dai 435 mila del 2020 a 426 mila alla fine del 2021. Se però la crisi economica non dovesse alleggerirsi, la previsione diventerebbe un deserto di culle vuote: i nati, sempre alla fine del 2021, potrebbero scendere, addirittura, a 396 mila.

Se si potesse dare un’ipotetica pagella ai giorni del lockdown, allora il personale medico verrebbe promosso a pieni voti, con un bel nove, mentre la protezione civile si fermerebbe qualche decimale in meno, diciamo un otto e mezzo. La quarantena ha permesso a molti di incrementare le proprie letture, il 40 per cento ha sfogliato un quotidiano, il 30 per ha letto addirittura libri. Due italiani su cinque hanno pregato almeno una volta a settimana e uno su cinque ha pregato tutti i santi giorni (ma c’è anche un 40 per cento che non lo ha fatto mai).

Il futuro del Paese si gioca sul lavoro, se è vero che un’azienda su otto sta pensando di tagliare il personale. Come abbiamo detto all’inizio le diseguaglianze riguardano soprattutto le donne e sono associate alla precarietà, al part time «involontario», alla difficoltà di conciliazione dei tempi di vita, alla mancanza di nidi. Lo stereotipo del povero è una giovane madre con figli, sola, con un lavoro precario che quando viene mancare diventa notte fonda. È impressionante vedere quante madri si rivolgono alle associazioni di solidarietà, a cominciare dalla Caritas. Nei giorni in cui si magnificano – come nella Ginestra – le magnifiche sorti e progressive dello «smart working» l’orario di lavoro risulta rigido per quasi 17 milioni di occupati e, tra questi, 5,6 milioni dichiarano forti difficoltà a ottenere permessi per motivi personali e ancora una volta le più svantaggiate sono le donne. Il 40 per cento dichiara di essere stato contattato fuori dell’orario di lavoro almeno tre volte da superiori o colleghi nei due mesi precedenti. Ci sarà da lavorare, e non poco, per restituire un futuro a questo Paese.

© RIPRODUZIONE RISERVATA