Dal maggioritario
al trasformismo

Si può discutere a lungo se il voto del 26 gennaio in Emilia Romagna, insieme a quello della Calabria, sia eccessivamente drammatizzato, superando i confini regionali per essere «nazionalizzato», diventando così un improprio plebiscito sul governo o su Salvini. Stress da competizione in stile «fine del mondo». Ma questo è quel che passa il convento, e non è una novità, tanto più che siamo solo alla partenza: entro l’estate toccherà ad altre sei Regioni (Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia). Fin qui il centrodestra, rispetto al quadro di tre anni fa, è riuscito a ribaltare i rapporti di forza, dato che guida 12 Regioni contro 7.

Questa raffica elettorale avviene in un clima tutt’altro che sedato: per la delicatezza dei dossier aperti, a cominciare dal rompicapo libico che meriterebbe maggiore attenzione, e soprattutto perché la bocciatura del referendum sulla legge elettorale da parte della Corte costituzionale ha determinato un cambio di stagione.

Si archivia, cioè, la Seconda Repubblica, quella del maggioritario, il cui declino è descritto dal crepuscolo di Berlusconi e dal volto pacioso di Prodi, divenuto il padre nobile di un qualcosa di inafferrabile. E potrebbe anche essere azzerato il gioco a tre, considerata l’emorragia grillina che il Pd di Zingaretti sta cercando di assorbire, trasformando un’accidentale alleanza di governo in una coalizione strutturata. Diventa così verosimile la prospettiva di una rinascita del proporzionale, pur corretto da una soglia di sbarramento. Significa il «liberi tutti»: ognuno va per conto suo, perché le alleanze si faranno dopo l’esito delle urne, quindi in Parlamento, là dove le alchimie di partito non sempre danno buoni risultati, con il rischio di un trasformismo già sperimentato. Dietro l’orizzonte della ricerca della stabilità del sistema c’è la garanzia di sopravvivenza per grandi, piccoli e cespugli vari in un contesto destinato a frantumarsi ulteriormente. Per contro le Camere avranno un ruolo crescente rispetto al governo. Non necessariamente è un ritorno all’antico in quanto, a parte tutto il resto, non ci sono più quei partiti di massa della Prima Repubblica e manca il partito-pivot, il perno dell’ingegneria istituzionale.

Piuttosto si entra in una terra incognita, dove il pendolo continua a oscillare fra scomposizione e ricomposizione di nuove formule. Se a destra sappiamo chi dà le carte, nel centrosinistra il contesto resta nebbioso e l’effetto del proporzionale renderà tutti più sensibili al richiamo della foresta in base alle reciproche convenienze. Nel mentre vige il «primum vivere». Il proporzionale è l’unico modello che può tenere insieme un movimento balcanizzato come i Cinquestelle e che vuole correre in solitudine. Il Pd è alle prese con il «partito nuovo» delineato da Zingaretti per ridefinirne il perimetro, quasi a dire che l’attuale casa dei riformisti non regge più, e sempre che non sia un malcelato progetto per ricostruire la ditta bersanian-dalemiana. Compito non da poco, quello di ridarsi un’identità, per un partito di confine e pur abile nelle capriole, sottoposto a una duplice pressione: da un lato c’è chi vi vede un appiattimento sulle posizioni grilline e dal riformismo debole, dall’altro l’offensiva di Renzi agisce come un puntello guastatore e competitivo in uno spazio neocentrista contendibile, o comunque in cerca d’autore per via del tramonto berlusconiano. Poi ci sono le Sardine: oggi un’opportunità, ma domani forse un problema in più. Siamo ancora dentro un’infinita transizione, pure a livello europeo in cui si stanno sperimentando formule inedite: in Austria i popolari al governo hanno sostituito l’estrema destra con i Verdi, la Spagna è guidata da socialisti e Podemos.

In Grecia la sinistra radicale del premier Tsipras ha governato con un partito nazionalista di destra. Ovunque la fragilità dei partiti contribuisce a indebolire una democrazia stanca. La Gran Bretagna, storica maestra del parlamentarismo, colleziona pasticci: dal maggio 2015 al dicembre 2019 ha avuto tre elezioni generali più il fatidico referendum sulla Brexit nel giugno 2016. Dal 2012 al 2019, la Grecia ha votato 5 volte. La Spagna, che per 30 anni ha visto una competizione bipolare e l’alternanza destra-sinistra, è andata alle urne 4 volte fra il dicembre 2015 e il novembre dell’anno scorso. Costruire coalizioni diventa un’impresa, un’avventura al buio. Il sistema elettorale è solo una parte, pur essenziale, dell’assetto istituzionale. La stabilità, specie con il proporzionale, dipende molto dalla forza e dalla disciplina dei partiti, divenuti invece sempre più comitati elettorali e sempre meno laboratori di cultura: questa è stata la lezione di uno scienziato del peso di Giovanni Sartori. C’è da chiedersi se sia o meno il caso italiano.

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