Dalle sue piaghe
siamo stati guariti

È difficile sentirsi a casa nel Venerdì Santo. Di solito, siamo tutti più abituati a considerarlo una triste tappa obbligata nel cammino verso Pasqua: anche quando lo viviamo compunti con le lacrime agli occhi, con la coda dell’occhio vediamo già affacciarsi la mattina della Risurrezione. La morte di Gesù, in cui sentiamo risuonare l’eco delle nostre esperienze abissali di dolore e di solitudine, ci sarebbe insopportabile se non ne conoscessimo già prima il lieto fine, se il nostro cuore non spostasse in avanti di due giorni le lancette delle proprie attese e delle proprie speranze. Dal Venerdì Santo si transita, si passa, si va oltre… verso la Pasqua.

Il Calvario e la croce - diceva don Tonino Bello - sono solo una «collocazione provvisoria»: non si rimane nel Venerdì Santo. È lo stesso meccanismo emotivo dell’arcobaleno sventolante dai balconi delle nostre case di questi giorni: un ottimismo ad ampie e brillanti pennellate ci costringe a guardare avanti. Senza sapere che «andrà tutto bene», il mantra di statistiche puntualizzate a ogni edizione del Tg ci risulterebbe insostenibile. Passerà anche questa. Come è passato il Venerdì Santo del Nazareno.

Forse è vero che abbiamo bisogno di questo salvagente di speranza per non naufragare negli sconfinati oceani del dolore; ma è altrettanto vero che non ci basta fuggire dal male. Al fondo del nostro soffrire rimane qualcosa che ci interroga e di cui non riusciamo a sbarazzarci come se fosse qualcosa di passeggero. Ogni anno, il Venerdì Santo sta al cuore delle celebrazioni del Triduo Pasquale a ricordarci che la nostra realtà di uomini e il nostro sentiero di discepoli di Gesù chiedono di prendere sul serio l’esperienza del male, perché lì dentro accade qualcosa di fondamentale. Lì dentro si rivela che i baratri di tristezza e di vuoto non sono incidenti di percorso che la vita riserva soltanto ad alcuni, ma nell’esistenza c’è una dimensione di Passione con cui ciascuno deve fare i suoi conti. Il Venerdì Santo passerà, ma non perché lo fuggiamo.

La Passione di Cristo rivive e si accende continuamente a partire dalle mille Passioni, le mille esperienze di scacco che striano la storia di ognuno: da quelle più grandi a quelle più quotidiane, ma non per questo meno distruttive e sfidanti. Lo sa bene chi in questi giorni ha dovuto dire addio a un proprio caro, chi ha versato lacrime amare, chi ha sentito vacillare le proprie certezze migliori, chi una volta nella vita ha deluso qualcuno, ha fallito, si è trovato impaurito, messo in un angolo, impotente. In tutti questi casi non ho bisogno che qualcuno mi dica che domani andrà meglio e che il sole tornerà a splendere. Ho bisogno che qualcuno mi dica che il mio dolore di oggi non è sbagliato e che io non sono fuori posto. Ho bisogno che qualcuno mi dica che l’affetto per i miei cari, il tempo che ho passato con loro, i miei sforzi più autentici, le mie battaglie e le mie sconfitte quotidiane non andranno perse, non saranno state un dolore inutile. Il Venerdì Santo rimane per abbracciare e raccogliere sotto la croce di Gesù le nostre croci, qualunque nome esse abbiano. E per mostrare loro una strada di salvezza che non sia una fuga, ma che faccia salvo tutto ciò che nel dolore non ha smesso di brillare, o ha ricominciato a farlo.

Il Venerdì Santo è allora un passaggio che non passa, che rimane per redimere, per dare ai miei abissi in cui mi sento perso una salvezza che non sia solo un’incoraggiante pacca sulla spalla. Il Venerdì Santo è il giorno in cui Dio, nella storia di Gesù, viene segnato per sempre dalle piaghe della Passione. Forse è un particolare a cui si fa poco caso: i Vangeli raccontano che Gesù risorge con un corpo sfolgorante, ma in cui spiccano i segni dei chiodi. Niente chirurgia estetica divina: le piaghe che sfregiano il corpo del Risorto sono l’ornamento più prezioso che il Venerdì Santo ci può far contemplare sul corpo di Dio, perché sono la traccia di un amore indelebile, di una salvezza che non cancella come inutile quello per cui ha sofferto. Risorgere con le piaghe vuol dire allora che Gesù non passa semplicemente oltre la morte, come se nulla fosse successo, ma che quella storia di amore – e di sofferenza che ci è legata – è conservata per sempre, non va perduta.

La salvezza in cui crediamo come cristiani, quella che anche in quest’anno così particolare passa dal Venerdì Santo, non ci salva dall’avere delle piaghe, ma salva anche le nostre piaghe. Per questo possiamo rimanerci senza il timore di perderci.

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