Decisioni severe
per il bene di tutti

Il Covid-19 è arrivato anche nella Bergamasca, un caso in città, tre casi ai piedi della Valle Seriana. Non c’è da stupirsi, proprio perché il principale motivo di preoccupazione legati al Coronavirus era ed è tuttora legato alla sua grande capacità di diffondersi tra la popolazione, il cosiddetto «R zero», cioè il numero di soggetti che un virus è in grado di infettare. Se l’«R zero» è inferiore a uno (come avviene per diversi agenti patogeni), il virus si «spegne» e muore naturalmente in un ragionevole lasso di tempo, se invece è superiore a uno, al contrario, continua a diffondersi. Il Covid-19, purtroppo, ha una «R zero» stimato tra 1.4 e 2.5 (ma uno studio recente gli attribuirebbe un «impact factor» di 4.08), dunque particolarmente potente. Se non c’è da stupirsi, non c’è nemmeno da preoccuparsi? In linea di principio sì, non c’è da preoccuparsi, a patto che ciascuno di noi faccia la propria parte. Dire – come molti hanno fatto e continuano a fare – che l’epidemia del Coronavirus è assimilabile a quella dell’influenza, è una comprensibile «favoletta» che si può raccontare per tranquillizzare il più possibile l’opinione pubblica, ma non è vero, e a dirlo sono i numeri: alle 20 di ieri (dati ufficiali), dei 152 casi di Covid-19 registrati in Italia fino a quell’ora, 25 erano ricoverati in terapia intensiva, quindi in condizioni serie. Parliamo dunque del 16,4% dei casi.

Quanto all’influenza, invece, i casi gravi sono attualmente (lo dice il virologo Burioni) lo 0,003% del totale, un dato nemmeno lontanamente sovrapponibile o perlomeno confrontabile. Detto questo (per correttezza e rispetto dell’intelligenza di tutti, non certo per far polemiche), la mortalità del Covid-19 si fermerebbe attorno al 2.08% (ben più bassa del 9,6% della Sars che si diffuse tra il novembre del 2002 e il luglio del 2003), anche se si tratta di un dato ricavato dal rapporto tra il numero dei decessi e quello dei casi gravi di infezione, dunque destinato a ridursi sensibilmente se calcolato invece sul numero complessivo di casi (compresi quelli asintomatici, un dato però indisponibile). Numeri alla mano, dunque, si può stare tutto sommato abbastanza tranquilli.

Ma allora perché sia la Regione Lombardia sia la Regione Veneto hanno (giustamente) emesso rigidissime ordinanze, vietando di tutto e di più, chiudendo scuole e università, cinema e mercati e ogni forma di aggregazione, Messe comprese? Per una semplicissima - e validissima – ragione: non esiste un vaccino specifico né per prevenire la malattia, né per curarla, senza contare che trattandosi di una malattia di origine virale nemmeno gli antibiotici servono a qualcosa. Non essendoci cure specifiche - e non conoscendo ancora bene tutte le caratteristiche del virus – l’unica vera arma per contrastarlo efficacemente è una soltanto: evitare che si diffonda tra la popolazione. E per evitare che si diffonda tra la popolazione, l’unica cosa da fare è limitare il più possibile i movimenti della popolazione stessa. Meno il virus circola, tra l’altro, più rimane stabile, cioè le sue caratteristiche non mutano, facilitando così il lavoro degli scienziati che stanno cercando di preparare un vaccino.

Dunque, bene hanno fatto Fontana e Zaia, e i loro colleghi del Friuli e dell’Emilia, a usare la massima severità, almeno per i prossimi sette giorni. Per una volta, i politici non facciano caso ai commenti che hanno invaso la «Rete», dove – ancora una volta – l’hanno fatta da padrone le «legioni di imbecilli» ben identificate da Umberto Eco tempo fa. Inevitabilmente, la linea dura di Fontana ha acuito il senso di panico legato al Coronavirus, ma è un prezzo che andava messo in conto, nella speranza che nel corso della settimana, chiusi nel salotto di casa, sia possibile fermarsi a riflettere su quanto sta accadendo, dando il giusto peso all’intera vicenda.

Iniziata piuttosto male, a dire il vero, se guardiamo quanto accaduto nei supermercati dell’hinterland, dove sembra siano passate le cavallette: lunghe file di scaffali completamente svuotati, nemmeno fossimo in tempo di guerra, senza contare spintoni e insulti che in alcuni casi hanno animato le code dentro e fuori gli ipermercati. Era proprio necessario? La risposta appare scontata, ma l’assalto alle provviste, un po’ come quello al forno delle Grucce di manzoniana memoria, è purtroppo la conferma che lo spirito con cui la politica ha fatto le proprie scelte - a tutela di un bene comune e prezioso quanto la salute umana - non è stato compreso fino in fondo.

Un’ultima annotazione. Proprio nella settimana in cui inizia la Quaresima (tra due giorni sarà il Mercoledì delle Sacre Ceneri), non si potranno celebrare le Messe. Tutto ciò è molto triste, ma non deve essere un alibi per dimenticarci di pregare, anzi. Perché se è vero quel che ha detto un parroco del Lodigiano informando i fedeli della scelta - «Pregare significa già sperare» -, è bene non dimenticare quel che raccontava il filosofo e teologo danese Kierkegaard: «Gli antichi dicevano che pregare è respirare. Qui si vede quanto sia sciocco voler parlare di un “perché”. Perché io respiro? Perché altrimenti morrei. Così la preghiera».

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