Effetto crisi
il pd (ri)spaccato

Tutti contro Matteo Salvini? Calma. Prima se ne discute. E all’occorrenza si litiga. Anzi, volendo ci si può anche spaccare in due. E se proprio non si risolve, ognuno per la sua strada. Il primo effetto della crisi di governo non sono le elezioni anticipate d’autunno ma la divisione del Partito democratico. Al solito, verrebbe da dire. Nella «guerra dell’agenda politica» che si combatterà oggi in Senato per decidere quando mettere ai voti la mozione di sfiducia della Lega al premier Giuseppe Conte, si sono formati due fronti: l’asse Salvini- Berlusconi-Meloni che vorrebbe fare più in fretta possibile, per andare all’incasso delle Europee, e la neonata coalizione tra Cinque Stelle, Pd e Liberi e uguali, che al contrario vorrebbero fare il più tardi possibile per far maturare una maggioranza governativa anti Salvini e frenare la corsa ai «pieni poteri» del mattatore di quest’estate calda.

Ma dentro il fronte dei «ritardatari» si è aperto un altro fronte, al solito: quello di Matteo Renzi, sceso in quel campo di Agramante che è la formazione politica di centro-sinistra. Il Pd è diviso sull’opportunità delle urne. Il segretario vuole andare a elezioni, anche se non così velocemente come vorrebbe Salvini, anche per non dare adito ad accuse di simpatia per i grillini. L’ex segretario no, vorrebbe un governo «istituzionale», o «no tax» – lo si chiami come si vuole – per evitare la iattura dell’Iva (che ci costerebbe decine di miliardi) e il taglio dei parlamentari, tanto caro ai Cinque Stelle. A chi lo accusa di «inciucio» con i seguaci di Grillo risponde che è il momento politico che lo richiede. Insomma, si tratterebbe di un secondo Patto del Nazareno, il suo capolavoro politico di sempre, quello che lo ha reso celebre e gli ha dato il potere, la mossa del cavallo che invece di coinvolgere Berlusconi stavolta tirerebbe fuori dall’angolo Grillo e Casaleggio ma darebbe un grande spazio per nuovi consensi al Pd. Nel caso non passasse la sua linea, Renzi è pronto a uscire dal Pd e fondare un nuovo partito (c’è già il nome, la nuova cosa si chiamerà «Azione civile»), portandosi dietro un bel po’ di parlamentari tra deputati e senatori, ancora presenti in forze nei due rami del Parlamento.

A nulla servono gli inviti a discutere «senza rancori e senza rinfacciarsi i cambiamenti di linea», come fa Dario Franceschini. Niente da fare. Dopo la scissione dei Liberi e uguali, che se ne andarono da Renzi, ecco preannunciarsi quella dei renziani, che se ne vanno da Zingaretti. Nel frattempo si discute tra le varie correnti: dai «dialoganti» e «pontieri» di «Fianco a fianco» (Delrio, Tommaso Nannicini) ai «Siamo europei» di Calenda e Tinagli, dalla sinistra di Andrea Orlando e Antonio Misiani, ai renziani ortodossi di «Sempre avanti» (Roberto Giachetti, Anna Ascani, Maria Elena Boschi) fino ai riformisti di Giacomelli, e ai comitati civici di Renzi e Scalfarotto e al partito dei sindaci capitanato da Beppe Sala. Perché nel Partito democratico ci sono più correnti che al Colosseo.

Tutti contro tutti come nella rappresentazione plastica delle assemblee del Pd nel film «Bentornato presidente» interpretato da Claudio Bisio, in una mal interpretata idea di democrazia, che non è scontro perenne di individualità bensì armonia di idee e ricompattamento di fronte a un progetto comune. Vaglielo a dire ai dem. Assistere al caos in casa Pd il modello, più che Pericle e De Gasperi, pare essere il Marchese del Grillo. Carlo Calenda dice che «è il momento del coraggio, non dei tatticismi». Ma intanto le pre-riunioni in vista del voto continuano a registrare spaccature. Peccato, perché come dice Gentiloni «quando il gioco si fa duro, i duri smettono di litigare». Non in casa Pd. Insomma, tutti contro Salvini, ma prima tutti contro tutti.

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