Ex Ilva, dura prova
per l’alleanza Pd-M5S

Il caso ex Ilva rischia di diventare il detonatore di una situazione politica sempre più in ebollizione. L’incontro che c’è stato ieri pomeriggio a Palazzo Chigi tra il governo e i vertici dell’Arcelor Mittal si è concluso in termini almeno apparentemente interlocutori senza che però questo significhi il venir meno della dichiarata volontà della multinazionale di abbandonare l’acciaieria di Taranto. Tanto è vero che nello stabilimento e in sede amministrativa sono stati avviati le procedure sia per diminuire la temperatura degli altoforni sia per il recesso formale dal contratto.

È pur vero che al tavolo col presidente del Consiglio e i suoi ministri, i due capi della famiglia Mittal hanno ribadito tutte le loro richieste, e anzi le hanno allargate: hanno chiesto non solo lo scudo penale prima ammesso e poi tolto dall’autorità italiana ma anche una ridiscussione del contratto adeguandolo alla attuale situazione del mercato dell’acciaio, tutt’altro che florida, e quindi con una previsione inferiore della capacità produttiva e conseguentemente del perimetro occupazionale. Non solo, Mittal non accetta i tempi di estrema urgenza con cui la magistratura ha chiesto l’adeguamento di un altoforno, pena il sequestro del medesimo, e dunque chiede norme adeguate anche per saltare questo ostacolo.

Il governo, almeno parlando del premier Conte, è disposto a reimmettere la tutela penale per responsabilità in campo ambientale non ascrivibili all’attuale proprietà ma alla precedente, ma sui livelli occupazionali non sembra volerci sentire.

Quel che conta ora è il punto di equilibrio che si può trovare tra l’ultimatum dell’azienda e la volontà politica del governo.

Pd e Italia Viva hanno già presentato emendamenti che reintroducono lo «scudo» cancellato per mano dell’ex ministra grillina Barbara Lezzi e di quindici senatori suoi fedelissimi (ma votato da tutti i partiti della coalizione). È anche per questo che va avanti una polemica durissima di tutti contro tutti, perché sull’ex Ilva negli ultimi anni è stato tutto un tira-e-molla che originava da una sola parte, e cioè dai grillini che a Taranto hanno preso voti promettendo la chiusura tout court dell’acciaieria e quindi hanno accettato con molte riserve le necessità di «realismo» di fronte al fatto che in quell’industria lavorano diecimila operai, più l’indotto; che l’ex Ilva è l’unica grande azienda rimasta nel Sud; che il piano di risanamento e rilancio dei franco indiani ammontava a quattro miliardi; e che l’Italia non può stare senza una propria grande acciaieria essenziale per il suo sistema industriale manifatturiero che trova nella meccanica un punto di forza. Di fronte a tutto questo Di Maio ha dovuto, tergiversando, accettare il contratto stipulato da Calenda ma proprio sullo scudo penale si è impuntato convinto che, cancellandolo, nulla sarebbe accaduto. E invece no. E forse gli indiani, come molti sospettano, hanno preso a pretesto il voltafaccia politico degli italiani per togliere le tende.

Questo atteggiamento del M5S sta provocando forti ripensamenti nel Pd, in Zingaretti e nei vari capi corrente che da una parte stanno perdendo voti e dall’altra hanno a che fare con un partito come il M5S con cui hanno grandi difficoltà a trattare.

Se insomma la fabbrica dovesse davvero chiudere, e il governo si trovasse una bomba sociale in esplosione in un Mezzogiorno già depresso, non è detto che l’alleanza giallo-rossa resisterebbe. La speranza di tutti (ma non della Lezzi e di chi la pensa come lei, naturalmente) è che si riesca ad indurre Arcelor Mittal a tornare sui suoi passi. Concedendo a loro, come è chiaro, tutto ciò che ieri è stato chiesto. «Saremo inflessibili», «Non ci faremo ricattare» hanno detto premier e ministri alla vigilia dell’incontro. Vedremo adesso come si comporteranno.

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