Facebook, la libertà
assoluta fa male

Fino a che punto può spingersi la libertà di parola, uno dei principi democratici? La domanda si è riproposta in settimana, quando Facebook ha deciso di chiudere i profili anche su Instagram di CasaPound e Forza Nuova, due movimenti di estrema destra, oltre a quelli di numerosi responsabili nazionali e locali. La scelta è stata così motivata dall’azienda: «Le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram. Candidati e partiti politici, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti sulle nostre pagine, devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia».

Secondo un portavoce, «gli account che abbiamo rimosso violano questa policy e non potranno più essere presenti su Facebook o Instagram». La società spiega che da sempre Facebook cancella individui o organizzazioni che incitano all’odio e alla violenza o che sono coinvolti in azioni violente. Su questo punto abbiamo un’obiezione: non è raro leggere commenti a notizie carichi di parole violente e diffamatorie verso gruppi di persone (i migranti su tutti e chi si opera per dare loro accoglienza) e che restano al loro posto senza essere rimossi. Il social infatti ha ancora problemi nel controllo dei contenuti. Nato come una sorta di giardino privato per colloquiare con i propri «amici», ora è una piattaforma di comunicazione usata da 3 miliardi di persone. C’è chi suggerisce il controllo da parte di istituzioni giudiziarie esterne per la rimozione dei contenuti lesivi.

Intanto sia Casa Pound che Forza Nuova hanno annunciato che faranno causa a Facebook per il reato di diffamazione e per tutti i reati relativi all’attentato alle libertà di opinione. Sui profili dei due movimenti però tra le altre, sono state pubblicate foto di persone che esibivano il saluto romano, parole che inneggiavano alla marcia su Roma o a Benito Mussolini e commenti carichi di violenza contro i soliti migranti. La legge Mancino prevede la reclusione fino a un anno e sei mesi o la multa fino a 6.000 euro di chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; la reclusione da sei mesi a quattro anni di chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Nel 2014 la Lega propose un referendum per abrogare la norma, definendola «liberticida».

Intanto proprio ieri Facebook ha annunciato l’aggiornamento degli standard del social, puntando su quattro pilastri: più attenzione all’autenticità dei contenuti, alla sicurezza, alla privacy e alla dignità delle persone. Si tratta di regole che stabiliscono ciò che è consentito o meno sulla piattaforma e che valgono per tutti gli utenti nel mondo. Resta il problema di chi controlla scritti e immagini di 3 miliardi di persone ed eventualmente cancella i contenuti dolosi. Al fondo resta un problema che non riguarda Facebook ma ognuno di noi. Qual è l’idea di libertà che abbiamo? La malattia dell’individualismo ha instillato in noi l’idea che ogni pensiero e ogni parola hanno diritto di cittadinanza, in quel perimetro infinito che è la libertà di espressione, una conquista democratica. Ma non è così: la libertà senza responsabilità può diventare pericolosa. Responsabilità ha la stessa radice di risposta: siamo chiamati a rispondere di ciò che diciamo e di ciò che facciamo. L’orgoglio di chi si riconosce la dote di essere una persona «che dice sempre quello che pensa» è fuorviante, perché dipende da ciò che si afferma, dal suo contenuto. La libertà valorosa è quella che non lede l’onore e la dignità del prossimo, che non lo umilia e lo ferisce con le parole o con le azioni. L’uomo libero è l’uomo serio, che risponde sempre di sé.

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