Femminicidi, rischio
del «delitto d’onore»

L’uomo ha colpito perché mosso «da un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento, ha agito sotto la spinta di uno stato d’animo molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile». Si legge questo nella motivazione della sentenza con cui ieri il tribunale di Genova ha deciso di dimezzare la pena per Javier Napoleon Pareja Gamboa, rispetto a quanto il pm Gabriella Marino aveva chiesto: da 30 a 16 anni. L’omicida aveva colpito la moglie Jenny Angela Coello Reyes con diverse coltellate, per gelosia.

Il fatto era accaduto nell’aprile 2018 a Rivarolo. È una sentenza che lascia un po’ sconcertati, anche perché arriva a pochi giorni da un’analoga decisione dei giudici della Corte di Appello di Bologna che hanno quasi dimezzato la pena per Michele Castaldo, 57 anni, omicida reo confesso di Olga Matei, strangolata a mani nude nell’ottobre 2016 a Riccione. Anche in questo caso la condanna dai 30 anni del primo grado di giudizio è stata ridotta a16. La motivazione è ugualmente sconcertante: l’imputato avrebbe agito mosso da una «soverchiante tempesta emotiva e passionale».

Due casi in pochi giorni che non possono non allarmare, anche perché i casi di femminicidio continuano a riempire purtroppo le cronache: il numero dei femminicidi in Italia infatti è rimasto pressoché invariato nonostante gli omicidi in assoluto siano diminuiti. Naturalmente chi giudica in tribunale deve guardare alla specificità del caso che sta valutando e non deve essere influenzato dal clima esterno né tanto meno è chiamato a emettere sentenze «esemplari». Tuttavia quello di cui siamo stati testimoni in questi giorni a distanza così ravvicinata preoccupa perché è sintomo di un approccio alla questione della violenza sulle donne che sembrava ormai giustamente archiviato. È un approccio che è prima culturale che giudiziario, in quanto dettato da un presupposto giustificazionista: le responsabilità del maschio che per gelosia o per altre cause arriva a uccidere la propria compagna vengono attenuate perché entrano in gioco fattori che in qualche modo «legittimano» o spiegano le ragioni di quel gesto. Così nella sentenza genovese arriviamo a leggere parole come queste: l’imputato «non ha agito sotto la spinta di un moto di gelosia fine a se stesso, per l’incapacità di accettare che la moglie potesse preferirgli un altro uomo, ma come reazione al comportamento della donna, del tutto contraddittorio che lo ha illuso e disilluso allo stesso tempo». È un ragionamento che ricalca il vecchio schema del «delitto d’onore» e che è suscettibile di ricadute di grande gravità. Infatti, senza voler entrare nei due specifici casi, è evidente come un approccio di questo tipo in qualche modo abbia una ricaduta di tipo culturale. Infatti l’opinione pubblica può essere indotta a credere che delitti come questi abbiano una loro motivazione nel carattere passionale. E quindi non rappresentino un fenomeno allarmante che espone tante donne, mettendole a rischio incolumità. La formula in cui si riassume questo arretramento culturale è quella coniata dal giudice bolognese: «tempesta emotiva». Una formula di un’ambiguità inquietante. Quale omicidio infatti non scaturisce da una condizione emotiva alterata? Se quindi in una sentenza si sottolinea questo dato assolutamente ovvio in ogni delitto, è perché si vuole sottolineare la responsabilità di chi avrebbe causato questa «tempesta emotiva»: cioè la donna che è poi la vittima. Il che, per sillogismo, significa affermare che una donna non è libera di dichiarare finito un rapporto affettivo e che se lo fa finisce con l’assumersi una responsabilità rispetto alle reazioni che suscita. Non è certo così che si può pensare di combattere quella vergogna del nostro tempo che è il femminicidio.

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