Fine vita, non si tratta
di un nuovo diritto

Bisognerà studiarla con attenzione. Tuttavia la prima impressione da una rapida lettura della sentenza 242, il cui dispositivo era già noto da due mesi, è che, nonostante le concessioni all’operazione Cappato, la Consulta intenda vigilare e dunque controllare gli effetti di una possibile deriva verso l’eutanasia che lo stesso promotore della iniziativa di giustizia costituzionale scaturita dal dramma del dj Fabo intendeva consapevolmente ed apertamente perseguire. Insomma, su uno scivolosissimo piano inclinato, due passi avanti e uno indietro, per fissare un’immagine.

Due passi avanti, ulteriormente aprendo le maglie del «fine vita», e scegliendo la strada della dichiarazione di incostituzionalità e non della semplice depenalizzazione della norma contestata, e un passo indietro, ribadendo la distinzione tra questo percorso medicalizzato e l’eutanasia alla maniera olandese o svizzera.

In concreto viene dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 580 del Codice penale, «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola il proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi», di una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (quali, ad esempio, l’idratazione e l’alimentazione artificiale) e affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma che resta pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Tutto questo «a condizione che l’aiuto sia prestato con le modalità previste dalla legge sul fine vita (n. 219 del 2017) e sempre che le suddette condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».

La porta è stretta e carica di ambiguità. Tuttavia, inserito nella pur discussa legge sul «fine vita» e sulle «dichiarazioni anticipate di trattamento» quello che di fatto è una forma di eutanasia, ovvero la decisione di affrettare la «fine vita», non sembra essere riconosciuto, come un «nuovo» diritto, piuttosto come una facoltà, una possibilità, lasciata al singolo individuo cosciente e informato, che può essere esercitata in forme appunto medicalizzate. La sentenza ribadisce la necessità di un intervento legislativo. Su cui si può essere perplessi. Per due motivi, che introducono due considerazioni di scenario. Il primo è il blocco della politica e in particolare della produzione legislativa. Abbiamo forze politiche debolissime, tenute insieme da leadership che si spendono su temi i più semplici possibile, cercando di attingere alle passioni più vive. Così da evitare da un lato le questioni di politica economica più strutturali e spinose, dall’altro le questioni etiche più divisive. D’altra parte sono ormai 25 anni che in Italia - ma non solo, perché il fenomeno caratterizza tutte le democrazie occidentali - il sistema giudiziario, dalla giustizia cosiddetta ordinaria, alla giustizia amministrativa, alla stessa giustizia costituzionale esercita quella che si può definire una «supplenza decisionale».

Il secondo motivo è sul merito, ovvero la grande questione dell’eutanasia, nel percorso, che viene da lontano, ovvero dal ’68 globale, dei cosiddetti nuovi diritti. Uno schema culturale in fin dei conti sterile che poi si è collegato con le nuove potenzialità delle tecnologie applicate alla persona. Oggi la vita non è più un dato: è manipolabile, in tutte le sue fasi, dal concepimento al suo termine. Nel segreto dei laboratori di mezzo mondo si lavora su frontiere inimmaginabili. C’è oggi una straordinaria questione antropologica, ovvero sull’uomo e sulla donna. Si tratta di un processo che non può essere lasciato solo alla logica economica. In questo senso l’eutanasia in realtà può essere un potentissimo strumento di governo e di regolazione, soavemente presentata come un diritto. Bisogna riappropriarsi delle ragioni della vita e della morte come frontiere naturali, sottratte all’ideologia e al mercato. Così da essere tutti più veri e più liberi.

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