Fusione Pd-5 Stelle
non si vede l’architetto

Sapevamo di vivere in una società liquida; solo ora, però, scopriamo che il suo tasso di liquidità è forse troppo alto per la nostra capacità di adattamento. Abituati come siamo a tenerci strette le fedeltà di partito, dalla culla alla tomba, così come rimaniamo fedeli alla squadra del cuore anche nella cattiva sorte, oggi trasecoliamo davanti al dissolvimento di ogni appartenenza, coerenza, lealtà al partito. Liquidi gli elettori, liquidi anche gli schieramenti e persino i partiti. Gli amici di ieri diventano d’incanto i nemici di oggi, e viceversa, senza suscitare né imbarazzi né abiure. È così, può succedere che dopo esserci tanto odiati proviamo ad amarci e che i cari nemici di ieri stringano un’alleanza, non solo di governo ma anche elettorale, e che prospettino – perché no? – persino una prossima fusione.

Quindici mesi fa, Cinquestelle e leghisti, dopo aver disinvoltamente steso un velo pietoso sulle contumelie lanciatesi in campagna elettorale, hanno giurato di stare abbracciati al governo. È passato poco più di un anno e a compiere la giravolta è toccato stavolta a Pd e M5S. Non ha creato loro alcun imbarazzo l’esser reduci di una guerra campale combattuta sino all’ultimo. È bastato loro ritrovarsi di fronte allo spauracchio di un Salvini premier per stipulare un accordo di governo, prontamente esportato in periferia, a cominciare dall’Umbria. Sull’onda del feeling ritrovato, si sono lanciati a coltivare l’idea addirittura di una fusione. Obiettivo: la creazione di una Cosa nuova della sinistra.

La chiamano Cosa: un nome non a caso indefinito perché indefinita è la futura identità della creatura in gestazione. Il progetto è talmente indeterminato che non è certo nemmeno se alla fine vedrà la luce qualcosa di davvero nuovo o se uno dei due partiti fagociterà l’altro. Si vedrà.

Ai blocchi di partenza la sfida appare impregiudicata. Pd e M5S sono perfettamente allineati, nel senso che hanno gli stessi handicap. Si ritrovano entrambi egualmente senza alternative. Il primo non aveva ieri e non ha oggi altro forno cui servirsi. Il secondo aveva un’alternativa (la Lega) e ora non l’ha più. Dispongono di una forza elettorale pressoché identica (circa il 20% ciascuno). Sono entrambi parimenti divisi al proprio interno. Hanno due leadership traballanti e idee piuttosto confuse sul da farsi, non solo per quel che riguarda l’azione di governo, ma anche su quel che intendono fare da grandi.

I Cinquestelle sono combattuti tra l’idea di restare fedeli all’originario voto di castità dal potere o cedere alle sue seduzioni, a Roma come a Bruxelles. Il Pd, a sua volta, si dice determinato a unificare il campo della sinistra. Tuttavia, se il giorno si vede dal mattino, ha poco da stare allegro. Ha cominciato perdendo un’anima (i renziani doc) e non è detto che non ne perda una seconda (i renziani resipiscenti). Soprattutto, ammesso che Zingaretti riesca a costruire questo benedetto «campo largo» della sinistra, resta il nodo insoluto che il Pd da solo non può andare molto lontano.

Per il momento comunque l’intesa dei giallo-rosa regge, anche se su basi piuttosto fragili. Tiene uniti, infatti, i due partner più il bisogno di scongiurare il fallimento di una relazione a dir poco pericolosa che non la salda fiducia in un suo futuro radioso.

Manca quello che potremmo chiamare un progetto di vita esaltante. Gira e rigira, circolano sempre le sole idee, trite e ritrite, della sinistra del Novecento: statalismo, assistenzialismo, giustizialismo. Ci vorrà un grande architetto per riuscire nell’improba sfida di costruire una Cosa nuova, con i soli detriti di un passato consegnato alla storia.

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