Gli azzardi di Boris
e il nodo irlandese

Philip Lee, deputato conservatore ma contrario alla Brexit, ha provocato un gran clamore decidendo di passare tra i Liberaldemocratici e così privando Boris Johnson dell’unico seggio che gli desse la maggioranza in Parlamento. Ma non ha cambiato in maniera sostanziale la situazione, tuttora appesa alla determinazione del premier (che governa in nome della coalizione tra Partito conservatore e Dup, i protestanti di destra dell’Irlanda del Nord) di non aprire nuove trattative con Bruxelles e di andare il 31 ottobre alla Brexit comunque sia. Anche se privo di maggioranza parlamentare, il governo non è obbligato a dimettersi. E Johnson ha già detto e ripetuto che non si dimetterà nemmeno se dovesse subire un voto di sfiducia, riservandosi invece di convocare elezioni anticipate a Brexit già realizzata, quando potrà giocarsi la carta del «volere del popolo» contro le «congiure dei politici». La lunga sospensione dei lavori parlamentari favorisce i suoi progetti e lascia agli oppositori (primo fra tutti il leader laburista Jeremy Corbin, protagonista in queste ore di un disperato tentativo di far approvare una legge contro la Brexit senza accordo) tempi ridottissimi per qualunque strategia alternativa.

Johnson ripete in ogni sede e a ogni occasione di non voler chiedere a Bruxelles né ulteriori rinvii né altre concessioni. Nello stesso tempo, però, lavora per spazzare dal tavolo quello che sia Londra sia Bruxelles considerano il vero spauracchio della «Brexit dura», il cosiddetto backstop, ovvero il rischio che tra l’Irlanda (che resterà nella Ue) e l’Irlanda del Nord, dunque il Regno Unito (che ne uscirà), ricompaia un confine vero, fisico, con tutto ciò che tale prospettiva comporta per la circolazione di persone e merci. Sarebbe un grosso danno per il Regno Unito e uno smacco per la Ue, che sui vantaggi di Schengen ha costruito gran parte del proprio fascino. Tra qualche giorno, Johnson volerà a Dublino per incontrare il primo ministro irlandese Leo Varakdar. E il suo scopo è chiaro: «Per ragioni geografiche ed economiche il settore agro-alimentare è gestito su basi comuni nell’isola irlandese. Siamo pronti a trovare i giusti modi per riconoscere questa realtà d’intesa con tutte le parti interessate. Ne discuteremo tra breve anche con la Ue». In altre parole, Johnson conta sul fatto che, in presenza di una soluzione ragionevole per tutti, l’Ue si faccia un po’ meno rigida e l’idea di un confine in mezzo all’Irlanda venga così abbandonata.

Come in tutto ciò che riguarda Johnson, anche in questo c’è una buona misura d’azzardo. Il premier irlandese Varakdar ha detto di essere disposto ad ascoltare ma non a intavolare trattative bilaterali (e cioè, fuori dall’egida collettiva Ue) a proposito della Brexit. Soprattutto, ha detto di non aver finora avuto alcuna proposta concreta. Da qui a lunedì, giorno dell’incontro, Johnson farà quindi bene a produrne qualcuna, se ce l’ha. Resta il fatto che, per quanto spregiudicata, la strategia di Johnson pare più solida di quella dei suoi oppositori. Lui vuole andare alla Brexit e poi ottenere dagli elettori un mandato forte che gli consenta di gestirla. E gli altri?

Il dibattito in Parlamento ieri sera è stato a tratti feroce. Il governo è andato sotto e oggi il Parlamento voterà la legge che dovrebbe bloccare la «Brexit dura». Viste le premesse è probabile che il voto sarà favorevole. Ma cosa faranno poi gli oppositori di Johnson visto che la Ue non vuole fare altre concessioni? Rischiano così un’umiliazione che, in caso di elezioni, potrebbe essere devastante. Soprattutto se Johnson facesse ciò che finora ha negato di voler fare, ovvero un patto elettorale con il partito pro-Brexit di Nigel Farage. Ma è la Brexit, bellezza. Tre anni dopo il referendum, sempre un pasticcio.

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