Governo, lo spettro
di Draghi agita Renzi

Matteo Renzi dice di essere sicuro che, se cadesse il governo Conte-bis, non si andrebbe alle elezioni ma ad un nuovo esecutivo. È plausibile, questa sua previsione, ma solo in un caso: che, dimettendosi Conte, si faccia un governo elettorale che superi il referendum del 29 marzo (una volta indetta, non è rinviabile la consultazione confermativa sulla riforma costituzionale che taglia il numero dei parlamentari), attenda i due mesi di tempi tecnici per l’applicabilità della riforma (che verrà sicuramente approvata dagli elettori), faccia dunque passare l’estate, arrivi a settembre e ci porti alle elezioni con i nuovi numeri prima che entri nel vivo la sessione di Bilancio che a quel punto dovrebbe essere affidata al governo che scaturirebbe dal voto, presumibilmente il centrodestra Salvini-Meloni-Forza Italia.

Oppure questo esecutivo potrebbe completare nel modo più accettabile possibile la sessione di Bilancio e poi passare la mano in dicembre. Tempo stimato, dai sei ai nove mesi. Candidato numero uno ad un simile incarico (sempre che accetti): Mario Draghi. Di lui si fiderebbero Europa e mercati e la transizione non dovrebbe causare troppe scosse ai conti pubblici.

Non è però sicuramente questo ciò che Renzi intende quando parla di un nuovo governo: non avendo alcun interesse ad andare ad elezioni che punirebbero la sua Italia Viva, chiaramente Renzi punta ad un governo sì diverso, a cominciare da un nuovo presidente del Consiglio, ma duraturo, in grado cioè di stare in piedi sino all’elezione del nuovo Capo dello Stato. Può riuscire questa nuova operazione «corsara» dell’ex presidente del Consiglio? Difficile. Per una ragione. Che si è ormai capito perfettamente che l’«Operazione Responsabili» auspicata da Goffredo Bettini (consigliere di Zingaretti) è in corso, ed è abbastanza ragionevole che riesca, rendendo superflui i voti renziani in Senato, oggi indispensabili per tenere in piedi il governo. Lo ha indirettamente confermato lo stesso Renzi quando ha denunciato pressioni sui suoi parlamentari perché abbandonino la navicella di Italia Viva per salire su un legno più sicuro, magari il Pd, che poi per molti sarebbe un ritorno a casa. Altri responsabili pronti a votare la fiducia a Conte potrebbero essere reclutati nel gruppo misto o tra i transfughi ex grillini o anche tra qualche centrista di Forza Italia o del centrodestra. In fondo, trovare una ventina di senatori, in questi tempi di cambi-casacca spregiudicati, non è un’operazione impossibile. A quel punto Renzi sarebbe espulso dalla maggioranza, starebbe all’opposizione senza più la possibilità di dire la sua sull’enorme infornata di nomine pubbliche che, secondo alcuni, sarebbe il vero motivo della sua agitazione. Ma se fosse vero che Italia Viva minaccia sfracelli solo per piazzare qualcuno all’Eni o all’Enel, allora avrebbe ragione Bettini a definire Renzi «una tigre di carta» che non ha in mano una pistola da gettare sul tavolo delle trattative. E allora non si capirebbe perché stia tirando tanto la corda.

Insomma, questo tornante del tribolato cammino del governo giallo-rosso ha più di un carattere surreale o comunque di difficile comprensione, almeno sotto il profilo della logica politica (forse la psicologia potrebbe aiutare). Nel frattempo ci sono varie tappe da superare: il voto sul Milleproroghe è la prima ma anche l’orientamento da prendere sulla nuova richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini (caso «Open Arms»). Senza contare naturalmente la grana irrisolta della riforma della prescrizione.

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