Il cambio di passo
che chiede l’industria

L’export nel 2017 ha avuto un saldo positivo di 47 miliardi ed è cresciuto più del prodotto interno lordo. L’Italia è il primo produttore di farmaci dell’Unione Europea, ha investimenti in ricerca e sviluppo nel settore per 720 milioni di euro, in crescita del 2% ogni anno. La robotica italiana gode di prestigio ed è tra i primi esportatori al mondo. Se passiamo a Brescia scopriamo che è la terza provincia in Europa per specializzazione industriale all’interno di un bacino settentrionale a più alta intensità manifatturiera.

Le migliori teste nel campo della ricerca sono spesso italiane. «Beautiful mind» le chiama il britannico Thompson Reuters Institute. Su 3.200 in tutto il mondo sono 55 gli scienziati più citati nelle pubblicazioni scientifiche. Per toglierci di dosso la sindrome del declino dovrebbe bastare. E invece non basta. Per la prima volta dopo 14 trimestri la crescita è stata nulla. La produzione calcolata a 100 nel 2008 era lo scorso anno a quota 82,4, adesso è addirittura a 81,9. L’Italia è l’unico grande Paese a non avere recuperato i livelli di prima della crisi.

Il buon senso direbbe di appoggiare chi la ricchezza la produce. Se l’economia tira anche i posti di lavoro crescono. Una politica industriale che sviluppi i punti forti del sistema e soprattutto permetta a chi ha perso il passo di riadattarsi alle nuove situazioni e fronteggiare la concorrenza con maggiore produttività. Non produzioni a basso costo per le quali troppi sono i concorrenti, ma tecnologia e innovazione. Il vento nuovo delle elezioni del marzo scorso aveva suscitato speranze tra le imprese. Per esempio una maggiore intensificazione del progetto Industria 4.0. È bastato lo stop alle grandi opere per capire che non era aria. Ed ora assistiamo ad una vera levata di scudi degli imprenditori. L’Unione industriali di Torino seguita da Assolombarda Confindustria vedono nella manovra di governo uno strumento per acquisire consenso elettorale, non funzionale alla ripresa. Adesso si muovono le singole città, Brescia e poi Padova annunciano: ci faremo sentire in tutte le sedi. Il reddito di cittadinanza da solo non basta a colmare il calo della domanda di beni. Secondo l’Istat l’aumento del Pil sarebbe intorno allo 0,2%. Troppo poco per dare ossigeno alle imprese che vanno incontro ad una frenata sui mercati internazionali, complice la politica protezionistica avviata dal presidente Trump.

Ci sarebbe bisogno delle grandi opere. Si pensi ai trafori, indispensabili per connettere le merci italiane con i mercati in modo efficiente, alle strade dissestate, ai ponti da manutenere, al dissesto idrogeologico, alle energie alternative, senza contare la scuola e la ricerca, unico vero grande tesoro di ricchezza per una nazione senza materie prime. Invece in questi settori non si vedono cambi di passo . Così la parte improduttiva del Paese fa premio sulla ragione economica. È il dramma italiano che si trascina nel tempo e che rende l’Italia l’unico Paese industriale esposto alle esigenze di chi non produce, produce in modo inadeguato e vive spesso di assistenzialismo. In Germania, dove ogni governo è attento alle ragioni dell’ equità sociale mai si perdono di vista le ragioni dell’industria, l’unica vera fonte di ricchezza. E lo stesso dicasi per la Francia ribelle degli scioperi selvaggi, i campioni nazionali hanno la priorità e vengono appoggiati anche nelle loro campagne di conquista in giro per l’Europa. L’Italia ne sa qualcosa. Dopo i disastri del maltempo e la distruzione di milioni di alberi il Veneto è di nuovo in piedi. Sono bastate due settimane. Un record, così come lo fu la ricostruzione dopo il terremoto nel Friuli del 1976. Ad Ischia, per fare un esempio, dopo le scosse del 2017 hanno avuto bisogno di un condono. Glielo ha concesso il governo del cambiamento.

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