Il dolore dell’umanità
sulle spalle del Papa

Il rintocco delle campane si mescola al suono di una sirena nella pioggia di piazza San Pietro. Jorge Mario Bergoglio è solo nella notte. Quale prevarrà? La domanda è lecita oggi che siamo esausti di morti e di contagi. Il Papa c’è. C’è la sua benedizione. Ogni casa è una cappella. L’altare con il Santissimo esposto è diventato il nostro televisore, evento senza precedenti, indulgenza plenaria per misericordia. La difficoltà del tempo presente sbaraglia regole antiche della Chiesa. C’è la benedizione del Papa, urbi et orbi, alla città di Roma e al mondo, c’è la benedizione quotidiana dei medici e degli infermieri a chi muore con quel solo conforto.

La frase «Che Dio ti benedica», viatico popolare, oggi diventata liturgia diffusa, spesso unica, una volta frequente e poi rara e ora di nuovo ripetuta a fil di voce sulle vite sospese e spezzate. Francesco cammina solo sotto la pioggia. Ha deciso di prendersi sulle spalle l’umanità intera e le sue lacrime. Non nasconde l’angoscia. Dice con una voce grave: «Fitte tenebre si sono addensate…». Ma poi subito la speranza: «Scenda su tutti la benedizione di Dio…». Fa a pugni con il Signore. Come Giobbe, che litigava con Dio: «Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: ‘Svegliati Signore”, non lasciarci in balia della tempesta».

C’è un Papa che è come noi, forse anche un po’ arrabbiato. C’è un Papa che è uomo, che ha paura anche lui: «Ci chiedi di non avere paura, ma la nostra fede è debole e siamo timorosi». C’è un Papa tuttavia cocciuto, come Giobbe e come noi tutti dovremmo essere: «Però, Tu Signore non lasciarci in balia della tempeste». C’è un Papa che confessa le colpe di ognuno, che abbiamo pensato troppo allo show, costruito false sicurezze, agende di corta solidarietà, progetti poco virtuosi, abitudini impastate d’egoismo, priorità farlocche. Oggi la tragedia smaschera tutto e tutto insieme e poi inchioda su di noi vulnerabilità e sicurezze che si rivelano false.

Lo dice Francesco nella sera di piazza san Pietro davanti ad un’immagine della Madonna considerata «salus», salute del popolo e di un crocefisso antico, venerato in una chiesa di Roma, il crocefisso di san Marcello al Corso, che veniva portato in altri tempi tempestosi per strade della città icona ostinata di vita. C’è un Papa che implora e lo dice in mondo visione che c’è un’unica appartenenza comune «cui non possiamo sottrarci» e cioè che siamo «fratelli» e solo come fratelli dalla pandemia possiamo uscire. Il suo volto, prima ancora che le sue parole, quegli suoi occhi luccicanti davanti al crocefisso, valgono più di ogni appello.

Francesco chiede di salvarci dalla paura della malattia e dalla paura del fratello, come ha fatto tante volte e tante volte è stato deriso da chi dettava altre agende. Supplica di salvarci «dagli inganni, dalla cattiva informazione e dalla manipolazione della coscienza». Davanti al virus siamo tutti uguali e tutti ugualmente nudi. La lezione di Bergoglio è tremenda: «Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare».

È difficile e faticoso oggi sentire la voce di Dio. Lo ha ricordato anche il vescovo Beschi ieri. Siamo, ha detto «sgomenti e ammutoliti». Il virus ci ha sottratto anche la pietà umana. Ma i funerali servono ai vivi. I morti muoiono nella Grazia di Dio. E nella mancanza di tante cose, nell’isolamento di affetti e di incontri, le parole di un Papa solo che invoca la carezza di Dio confermano che la Grazia farà prevalere la voce delle campane sulla sirena delle ambulanze.

© RIPRODUZIONE RISERVATA