Il leader si sottrae
all’incubo liquefazione

Luigi di Maio se ne va. Non come Cincinnato: non torna alla natia Afragola per riprendere la vita di qualche anno fa. Resta comunque vestito da ministro degli Esteri. Se ne va piuttosto come uno che spera presto di essere richiamato per assenza di concorrenti. Cosa che proprio nessuno sa se mai accadrà. Probabilmente no. In ogni caso, Di Maio se ne va a quattro giorni dalle elezioni in Emilia Romagna. Che per il M5S saranno un disastro di tali dimensioni da rasentare la sparizione. Dopo aver perso sei milioni di voti dal 2018 ad oggi, Di Maio non ha voluto accollarsi la responsabilità delle prossima, annunciatissima sconfitta elettorale. In effetti, quando lui non sarà più sul podio a comandare, risulterà di scarsa soddisfazione martedì prossimo mirare a lui con le freccette per il disastro emiliano. Lui sarà già acqua passata. Personificazione di un ciclo che si è chiuso.

La grande paura dei grillini è che tutto ciò finisca all’improvviso allo scoccare della mezzanotte, quando la carrozza dorata tornerà ad essere una zucca. È per questo che Di Maio se ne va: per non diventare – ma di fatto già lo è – colui che portò il Movimento dalle stelle alle stalle. Lo sanno i deputati e i senatori che fanno le valige e traslocano, chi verso la Lega, chi al Pd, chi al gruppo Misto per prendere tempo, alla ricerca di una improbabile ricandidatura; e lo sanno pezzi interi del Movimento che si staccano come pezzi di ghiacciai che si sciolgono. L’incubo è proprio questo: lo scioglimento, la liquefazione.

E la dimostrazione che a dominare ormai è il panico, al posto di Di Maio verrà sollevato come reggente il grigio travet Vito Crimi, di mestiere cancelliere di tribunale, uno dei tempi eroici che dopo un periodo breve di luce fu rapidamente giubilato e riposto nell’ombra, al punto che lo si ricorda solo per il tentativo di chiudere Radio Radicale. Crimi dovrà affrontare i prossimi mesi di grandi difficoltà senza avere né l’autorità né l’autorevolezza necessarie.

Il vero leader del Movimento, già pronto e incravattato, è naturalmente Giuseppe Conte, rivelazione di questa legislatura: uomo flessibilissimo e astuto, passato dall’essere uno sconosciuto professorino miracolato dall’amicizia con il suo allievo Alfonso Bonafede e, attraverso questi, con Di Maio, a diventare presidente del Consiglio, prima di un governo di destra e poi di uno di sinistra, e adesso leader unico (in qualche modo l’anti-Di Maio) di un Movimento in crisi profondissima: di linea (nessuno sa che fare), di identità (nessuno sa se militi in un posto di destra o di sinistra), di guida, (nessuno sa più chi comandi), e soprattutto, ciò che per i grillini è la cosa più importante, nessuno sa più chi sia il cattivo della scena. Il nemico di ieri, il Pd, ora è l’alleato: l’alleato di ieri, la Lega, ora è il nemico.

Sia Conte che Zingaretti, ormai uniti (con Grillo) da un’intesa politica e personale che da tempo aveva escluso Di Maio, si sono precipitati a dichiarare che per il governo non ci sono problemi: tutto va avanti. Ma non sarà così, naturalmente. Primo, perché bisogna vedere se Salvini conquisterà l’Emilia Romagna o se il Pd riuscirà a difendersi; secondo, perché difficilmente un governo può andare avanti tranquillamente quando il partito di maggioranza, che dovrebbe essere il suo vero architrave, è invece l’epicentro del terremoto che può disgregarlo.

Il più preoccupato di tutti è colui che non parla, cioè Sergio Mattarella che vede stagliarsi di fronte a sé una crisi di governo al buio che porterebbe solo a nuove elezioni in primavera e al governo destro-sovranista di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni. Ma non andiamo troppo avanti.

Per ora osserviamo la parabola di un altro un leader consumato in pochi anni, come è successo a Renzi, prima di lui a Letta, e come i suoi sostenitori temono possa accadere a Salvini.

Due anni di potere e di trionfi. Poi, pof!, il tonfo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA