Ilva, Alitalia e le altre
tra mercato e vecchie vie

Unicredit, con 5.000 posti di lavoro in esubero, è solo l’ultimo dei casi imprenditoriali in difficoltà nell’economia italiana a crescita 0,2 di oggi. Altri 5.000 sono in ballo solo per una ipotesi di trattativa per Alitalia, mentre l’ex Ilva ha scoperto le carte e può arrivare a 6.300 (altrettanti nell’indotto). Ma se questi sono i casi più vistosi, al ministero dello Sviluppo sono 150 i «tavoli» di crisi aperti, in crescita dopo che l’allora ministro Di Maio ha cambiato e non ben sostituito l’ottimo dirigente che se ne occupava.

Ci sono anche tavoli di ritorno, come Alcoa, la madre di tutte le crisi aziendali, che sembrava risolta e all’ultima firma si è di nuovo bloccata. Gioco dell’oca. Ognuno è un caso diverso, per di più. Per Ilva, due governi e tre partiti si sono fatti male da soli dando un alibi agli inquilini indiani, e ora si deve rincorrerli. Più facile, per loro, far presente che hanno licenza per 6 milioni di tonnellate (al tempo degli espropriati Riva erano 8), ma il mercato ne chiede a mala pena la metà. Per Unicredit la crisi è di crescita (e infatti la quotazione è salita, appena annunciato il piano), in un settore che ha tagliato in questi anni mezzo milione di posti di lavoro in tutta Europa.

Del resto, abbiamo tutti la banca in tasca e in filiale la qualità, almeno in apparenza, ha sostituito la quantità, gli iPad le mezze maniche dei ragionieri. La nuova economia chiude porte ma potrebbe aprire portoni, se solo la classe politica desse priorità a ricerca, innovazione, incentivi per la produttività ferma da vent’anni.

Al centro di tutto, una grande questione: cercare, per queste crisi, la cosiddetta «soluzione di mercato». È la via maestra, anche se non piace, perché il mercato non ragiona per convenienza elettorale.

Il mondo non è più quello dei monopoli naturali, e i protezionismi sono solo un veleno destinato o a danneggiare innanzitutto i loro promotori o a preparare guerre. Il mondo è globale e ragiona sui numeri complessivi, che si compensano reciprocamente. Se a Taranto c’è da piangere, in Cina si sorride.

La nuova classe politica pensa invece che la complessità sia un complotto che nasconde le scorciatoie facili, e crede che esista davvero una stanza dei bottoni di cui impossessarsi quando va al governo.

Non basta più neppure la finzione della Cassa Depositi e Prestiti, che però almeno è in parte privata e frena se le si chiede pura assistenza, mentre le Ferrovie erano prone all’ordine dei Toninelli di turno che le volevano come socio pubblico di Alitalia, un inedito mondiale. Ora, spunta addirittura il vecchio fantasma dell’Iri, un bel contrappasso per i cosiddetti nuovi. Nell’era dell’incompetenza, lo si confonde però con l’Efim o la Gepi e gli si vorrebbe scaricare i problemi che la politica non sa risolvere. Un salto all’indietro, ma non ai tempi dell’Iri che costruì l’Autostrada del Sole in un tempo inferiore a quello in cui oggi si approva il nuovo casello di Dalmine.

Il modello sognato è quello dei panettoni di Stato, cioè polvere da nascondere sotto il tappeto, perché l’ideologia cancella la responsabilità e si confonde la difesa del lavoro con il sussidio. Errori già fatti in un passato lontano, da politici che però ad un certo punto sono stati almeno capaci di darsi il vincolo europeo come antidoto. Vincolo che abbiamo più che mai oggi, per cui presto ci sarà chiesto conto di finti prestiti ormai arrivati a 1,3 miliardi, che Alitalia non restituirà più. Per non dire degli 8,7 miliardi dei contribuenti italiani, forse 9,5 secondo l’Istituto Bruno Leoni.

Un altro boomerang del sovranismo, che parla d’altro, si straccia le vesti sul Mes approvato a sua insaputa, e guarda, patriotticamente si intende, a tricolori sulla coda di aerei inesorabilmente in atterraggio.

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