La centralità dell’Italia in Europa
la risposta passa dall’economia

Dei tanti significati delle imminenti elezioni europee, il più importante rischia di essere il meno nitido. Si tratta del ruolo dell’Italia: centrale o periferico? Dato che a livello mondo contiamo quanto il nostro Pil, cioè poco più del 2%, e la nostra crescita 2019, dello 0 virgola, è all’ultimo posto tra i Paesi più sviluppati, a livello Yemen, l’unica centralità cui possiamo aspirare è quella europea. Non esiste un rapporto politico ed economico Italia/mondo, esiste solo un rapporto Europa/mondo e, nel suo ambito, la capacità italiana di emergere tra i 28 piccoli Paesi che ne fanno parte.

La centralità è pertanto questione tutta politica, che dipende solo in parte dal Pil o dalla demografia. Se fosse solo per questo, basterebbe la classifica, che ci pone al terzo posto o al quarto, a seconda della presenza o meno del Regno Unito. Allo stato attuale, la competizione è invece con la Spagna, che è in crescita, ha assorbito meglio il conflitto tra il populismo (che lì è nato) e le forze tradizionali (i socialisti hanno appena vinto le elezioni) e soprattutto ha un’economia che cresce bene. Se perdiamo anche questo confronto, anziché inserirci autorevolmente nella dialettica tra Francia e Germania, perdiamo la leadership del Sud europeo, dove la Grecia sta superando la grande crisi.

Il problema è che l’Europa è convergenza e collaborazione, ma è contemporaneamente competizione spietata. Nessuno tra i singoli Paesi ci farà mai sconti. Non l’asse franco-tedesco, da cui dipende la nostra economia, non il polo dei Paesi del Nord, per i quali siamo solo cicale inaffidabili, e tanto meno quelli dell’asse di Visegrad, guidati da un’Ungheria che è sovranista vera, snobba alleanze improbabili con partiti velleitari e, da dentro il Partito popolare europeo, può cercare di destabilizzare o orientare gli equilibri, magari sfruttando la disponibilità di altri sovranisti, italiani in primis, disposti a far da sgabello ad una democrazia orgogliosa di definirsi illiberale.

L’Italia ha un solo modo di raggiungere e rafforzare la sua centralità: rilanciare la sua economia, presentandosi con i conti in ordine, senza cercare sempre aiuto o flessibilità varie. Ci siamo lamentati tanto di Juncker e Moscovici, definiti euroburocrati, mentre dobbiamo al loro essere politici puri, di lungo corso, la paziente disponibilità alla mediazione. Ora trascorriamo la campagna elettorale sollecitati dagli slogan contro un nemico, l’Europa delle banche e della finanza, che se mai sta a Francoforte ed è quella che ci ha aiutato, ma ben altri sono i pericoli che dobbiamo temere. I mercati finanziari, quelli veri, non esiteranno a colpirci se avranno di fronte un Paese isolato, senza alleanze e punti di forza, riflesso in economia di quello che è in politica estera: incapace di schierarsi tra i contendenti libici, incerto nelle scelte di valore in Venezuela, debole con cinesi, inaffidabile con gli americani, iroso con i francesi, diffidente con i tedeschi, inesistente nel profittare delle sbandate inglesi.

In economia poi dallo scoppio della crisi del 2008, che si portò via il 10% del prodotto, siamo risaliti solo del 5%. La luce che si era accesa nel 2017, sfiorando il +1,8%, sì è subito spenta nel 2018 elettorale. Negli stessi 11 anni, la Germania è cresciuta del 13%, la Francia del 9,5%, la Spagna più del 4%. In termini di Pil procapite ci batte anche la Grecia. Noi siamo al -2,5%, cioè siamo più poveri del 2008. Era il momento di agganciare gli altri e invece il distacco aumenta. E non può essere diversamente se continuiamo a far debito e proclamiamo giulivi che dal reddito di cittadinanza «avanza» un miliardo e possiamo spenderlo diversamente, come se lo avessimo guadagnato, mentre se mai è meno debito. È così che il rapporto debito/Pil dal 2014 al 2018 è cresciuto del 7,6% in Italia, ed è -0,3 in Francia, -2 in Spagna, -6,6 in Germania. Passa da questi numeri la scelta tra essere centro o periferia.

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