La forza di chi prega
non sta nella magia

È la prima analisi organica della pandemia da Covid-19 della Santa Sede. Il Papa l’ha approvata lunedì 30 marzo e porta la firma della Pontificia Accademia per la vita, frutto delle riflessioni di 163 accademici di tutto il mondo e di tradizioni culturali e religiose diverse. È un testo lungo e assai articolato che prende in esame gli aspetti sanitari, sociali, economici e anche le implicazioni religiose della pandemia. Francesco ha confidato al presidente della Pontificia accademia per la vita, il vescovo Vincenzo Paglia, la sua doppia preoccupazione: per i più fragili e per la solidarietà. Paglia lo ha spiegato all’Osservatore Romano e nelle sue parole c’è la conferma della speranza del Papa e cioè che dalla tragedia l’umanità possa uscire rafforzata con un «di più di fraternità a livello globale».

L’esempio dei medici e degli infermieri in prima linea non solo dal punto di vista clinico consolida l’auspicio del Papa. C’è nel loro impegno fino all’esaurimento, nella loro tenacia sul senso di responsabilità un’indicazione che vale al di là di ogni protocollo etico e tecnico. L’analisi della Nota della Pontificia Accademia lo dice con chiarezza, domandandosi da dove viene la forza o meglio da dove ricavare la forza interiore per esercitare un così alto grado di responsabilità fino al rischio della vita.

La risposta che la Nota offre è una riflessione attorno al senso e alla potenza della preghiera e lo fa con le parole del vescovo di Bergamo mons. Francesco Beschi, unica citazione in tutto il lungo documento vaticano: «Le nostre preghiere non sono formule magiche. La fede in Dio non risolve magicamente i nostri problemi, piuttosto ci dà una forza interiore per esercitare quell’impegno che in tutti e in ciascuno, in diversi modi, siamo chiamati a vivere, in modo particolare in coloro che sono chiamati ad arginare e a vincere questo male».

Il commento del testo vaticano evoca altri e importanti ragionamenti, quelli sui «cristiani inconsapevoli», che sono tutti coloro che vegliano accanto all’uomo sofferente, con una forza pari dei discepoli di Cristo, quelli per cui, come scriveva Dietrich Bonhoeffer, il teologo tedesco ucciso dai nazisti, l’essere per gli altri si può solo in Cristo. Ora al tempo della pandemia tutto si irrobustisce sia nella riflessione personale sia in quella comunitaria e in qualche modo politica: «Anche chi non condivida la professione di questa fede, può trarre in ogni caso dalla testimonianza di questa fraternità universale tracce che orientano verso la parte migliore della condizione umana». Il punto centrale è l’obbligo della tutela dei più deboli come prova, a volte inconsapevole, alla quale viene messa la fede evangelica.

La Nota dell’Accademia della vita sgombra il campo anche dal «rozzo schema» che qualcuno ha adottato per giustificare la pandemia come ira del cielo e spiega che le sofferenze attuali dell’umanità non sono una «rappresaglia sacra» intrapresa da Dio in risposta ad una sorta di «lesa maestà del divino», di cui sarebbe colpevole l’uomo moderno. Piuttosto serve una migliore responsabilità sul senso e sul valore dell’umanesimo, da ricercare con la stessa urgenza che si mette nello scovare farmaci di cura e vaccini. Vuol dire per esempio accettare i limiti e le precarietà delle nostre conoscenze e smetterla di sostenere «la presunzione di civiltà e sovranità che si ritengono migliori e in grado di sottrarsi a riscontri».

È questa alla fine l’avvertenza esemplare del documento vaticano, l’unica che può sostenere e insieme rasserenare il compito «delle donne e degli uomini di scienza e di governo» nel mezzo della pandemia.

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