La nostra politica estera
a misura dei partiti

Qual è il criterio che segue il governo Conte in politica estera? Il tanto sbandierato «Prima l’Italia» o l’inconfessabile «Prima i singoli partiti»? Non è una domanda pretestuosa. Sorge spontanea, solo che si guardi, al posto degli obiettivi enunciati, alle implicazioni dei comportamenti adottati. In politica estera vige nel mondo la regola della salvaguardia, anzitutto, degli interessi geopolitici, spesso in barba agli stessi imperativi ideologici. La storia è ricca di esempi. Il più clamoroso è il «trattato di non aggressione» stipulato tra la Germania e l’Urss il 23 agosto del 1939, ossia tra nazisti e comunisti. Venendo a noi, spiccano il riconoscimento fornito nel 1973 dalla Cina maoista al Cile golpista di Pinochet o l’odierno appoggio garantito dagli Stati Uniti, la nazione che vorrebbe esportare la democrazia nel mondo, a uno Stato campione di autocrazia, l’Arabia Saudita.

A questa regola non si è per lo più attenuta l’Italia. Da noi la politica estera è stata soprattutto una funzione della politica interna. Di quello, di cui i partiti si sono curati, è stato soprattutto il loro tornaconto politico. L’alleanza con gli Usa è valsa alla Dc come la certificazione internazionale del suo anticomunismo. Simmetricamente, la granitica solidarietà fornita dal Pci alla «patria del comunismo» è servita da contrafforte al suo ruolo di forza d’opposizione alla Dc.

Non scandalizza perciò che anche nella Repubblica dei populisti la politica estera sia ricondotta al preminente interesse di partito. Salvini ha fatto della crociata anti-immigrati la leva del suo strabiliante successo. È naturale che faccia le barricate contro la Ue, elusiva dei suoi impegni sulla redistribuzione dei rifugiati. Di Maio si è intestato la missione di liberare l’Italia dalle catene che i poteri forti del mondo le hanno stretto ai polsi. Non meraviglia che banche, agenzie di rating, multinazionali, grande stampa, i Benetton di turno siano le sue bestie nere. Da ultimo, è divenuto Emmanuel Macron il bersaglio principe della lotta all’Ue. Al presidente della Repubblica francese viene addebitata una lunga lista di errori/colpe. Solo per richiamarne i più eclatanti, il perdurante sfruttamento coloniale dell’Africa centro-occidentale, presunta causa prima dell’onda immigratoria dei disperati sulle nostre coste. La doppia morale, umanitaria con i migranti approdati in terra italiana, feroce alla frontiera di Bardonecchia. Macron non è stato scelto a caso. È il capofila dello schieramento che al grido «Fermiamo i populisti» vuole sbarrare il passo all’armata sovranista europea. Una crisi sfociata ieri nel richiamo in Francia dell’ambasciatore a Roma, dopo il flirt fra 5 Stelle e gilet gialli.

I sondaggi danno per il momento ragione alla tattica del muro contro muro, adottata dai partiti al governo. Il loro consenso o cresce (Lega) o resta su posizioni di tutto rilievo (M5s). Entrambi si aspettano di raccogliere buoni frutti anche alle elezioni europee. E dopo? Relegate in soffitta l’uscita dall’euro e l’Italexit, resterà sostenibile e soprattutto profittevole la loro strategia d’attacco contro tutti i principali partner europei? Nella vagheggiata Europa dei sovranisti, ognuno potrà essere padrone a casa propria ma sarà anche solo nel consesso internazionale, tra giganti quali Usa, Cina, Russia e India.

© RIPRODUZIONE RISERVATA