La povertà grande
priorità politica

Il reddito di cittadinanza fa molto discutere. Obiezioni legittime possono essere sollevate, anche sulle modalità di finanziamento. E tuttavia, nel quadro di queste discussioni e al netto della normale dialettica maggioranza-minoranze, c’è un aspetto che pare emergere e che suscita una preoccupazione più profonda. Nei toni tranchant e perfino un po’ irridenti che la critica al reddito di cittadinanza ha talora assunto torna di frequente l’argomento per cui, con questo provvedimento, si elargirebbero soldi a premiare l’ozio e il parassitismo.

Questa critica serpeggia trasversalmente alle opposizioni di destra e anche di sinistra. Essa appare la spia di una più generale tendenza, rimontante ma mai davvero sopita, alla colpevolizzazione della miseria e alla sua svalutazione morale.

Nel contenuto, peraltro, il provvedimento, data la temporaneità del beneficio, e la sua condizionalità a sforzi di reinserimento sociale e lavorativo da parte del beneficiario, risponde almeno in parte alle obiezioni. E tuttavia ci pare che nella critica delle forze cosiddette sistemiche a questa riforma del governo «populista» rischi di rimanere invischiata un’implicita stigmatizzazione dei poveri. La posizione anti-populista deve guardarsi dallo scivolamento nel rischio della svalutazione dei cittadini più vulnerabili e ridotti al margine e dell’assunzione della parte dell’élite globalista ed economicamente performante. La stessa difesa dell’Unione Europea non è immune da questo rischio se dell’Europa non si recupera la dimensione popolare e sociale che pure è insita nel suo progetto e che - a scanso di equivoci - non è conseguibile se non nell’orizzonte comunitario.

Lo zelo della narrazione meritocratica può impedire di vedere che la questione della povertà e dell’esclusione sociale è una grande priorità politica. Il riconoscimento della vulnerabilità non può retrocedere a problema individuale – da affrontare con sedute psicanalitiche o con tecniche motivazionali - di chi abbia fallito nella competizione globale, ma mette in gioco la questione politica della cura dell’umano. La rimozione della fragilità dalla sfera del politico è solo apparente: tale questione si ripresenta fatalmente in forma pulsionale, non elaborata e mediata politicamente: come rabbia nei confronti delle élite (che si sfoga nella cabina elettorale o in movimenti di protesta) o, peggio ancora, come messa in scena di una guerra tra poveri.

Capita così che provvedimenti restrittivi nei confronti dei migranti trovino ampio consenso popolare, perché travestiti da malintesa forma di politica sociale, sicché gli individui sono spinti a pensare che la colpa delle loro sventure stia in qualcuno più sventurato di loro. Anche in questo modo, si ostacola la maturazione della vulnerabilità come (la) questione politica: i soggetti fragili non sono indotti a solidarizzare con altri che vivono la stessa condizione, ma a sentirli differenti, proiettando solo su se stessi una speranza individuale di riscatto che ad altri si vorrebbe preclusa. L’azione collettiva viene così inibita e la fragilità diventa un tema su cui si giocano divisioni e manipolazioni. Le prossime elezioni europee e comunali sono un banco di prova decisivo per questo grande tema. L’Europa deve recuperare la sua costitutiva dimensione sociale e ricostruire le condizioni politiche di governo dei processi economici e finanziari che sono all’origine degli squilibri; il Comune può invece rimettere in rete le fragilità, non tanto dando loro dignità di problema, quanto riconoscendo piena cittadinanza e promovendo la capacità dei cittadini di costruire relazioni e reti di corresponsabilità e di solidarietà.

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