La riforma dello Stato
Fiducia e controlli

«Nessun ministero è sorto che non siasi creduto in dovere di fare delle riforme degli organismi amministrativi, uno dei capi saldi del programma». Così, testualmente, si affermava in un disegno di legge presentato da Francesco Crispi alla Camera dei deputati del regno d’Italia. Era il 1894. Nei 120 anni successivi il ritornello è stato sempre il medesimo. Oggi siamo di nuovo di fronte allo stesso problema: come rendere le amministrazioni pubbliche uno strumento essenziale piuttosto che un elemento di freno allo sviluppo socio-economico del Paese. Le ragioni dell’inadeguato livello di efficienza del sistema pubblico sono molteplici e sfuggono ad una superficiale individuazione del «colpevole». Indicato, perlopiù, nell’odiata «burocrazia». In realtà, le responsabilità sono largamente diffuse e pochi se ne possono sentire indenni.

Diversi anni fa Eugenio Scalfari provò a delienarne l’intreccio: «Uno Stato debole, corporazioni forti, disistima e odio nei confronti della politica, corruzione pubblica diffusa a tutti i livelli, personale politico mediocre a sua volta corporativizzato, borghesia inesistente, capitalismo protezionistico […]. La storia italiana ha come fondale questi contenuti». Di fronte a tale scenario, riformare lo Stato, rafforzandone la capacità di garante dei diritti e dei doveri, era e rimane uno dei nodi centrali da affrontare. Il tema della riforma amministrativa ha dato vita a continui interventi legislativi ai quali è corrisposta una cronica carenza di iniziative coerenti. Una questione squisitamente politica, poiché ogni volta si ribadisce che il «buon governo» è prodotto e, insieme, fonte di buona amministrazione. L’uno quale capacità di sintesi dei bisogni della società, l’altra come leva indispensabile per tradurre gli indirizzi di governo in servizi corrispondenti alle esigenze dei cittadini. Le riforme, tanto invocate e sovente proclamate come avvenute, raramente sono riuscite a produrre un cambio di marcia nella qualità del sistema pubblico. Al contrario, le disfunzioni e i ritardi sono divenuti - in rapporto alle trasformazioni rapidissime dei sistemi economici e delle dinamiche sociali - ancora più marcati e visibili.

In un momento nel quale il Paese è chiamato a dare il meglio di sé per riprendere fiato dopo gli sconquassi derivati dalla pandemia - tra i nodi da sbrogliare per dipanare la matassa - conviene soffermarsi sulla sfiducia che connota il rapporto tra poteri pubblici e cittadini. Ai loro occhi lo Stato si presenta come «una creatura, ambigua, irragionevole, lontana». Alla base della sfiducia nelle pubbliche amministrazioni vi è, da un lato, l’arretratezza dei suoi sistemi di gestione e, dall’altro, la tendenza a mantenere i cittadini in una condizione di sudditanza. La prima circostanza costituisce «il dramma organizzativo» degli apparati pubblici, incapaci di affrancarsi da modelli di comportamento tipici dello Stato ottocentesco. La seconda contribuisce a rendere ostici i rapporti tra società civile e amministrazione. La decisione del governo di mettere in primo piano un programma di misure finalizzate a snellire drasticamente le pastoie organizzative, a superare i tradizionali formalismi, a rendere più agevole l’accesso ai servizi da parte dei cittadini, è lodevole ed è sperabile che il Parlamento - nella sua sovranità - contribuisca all’approvazione di norme chiare e orientate ordinatamente a conseguire gli obiettivi prefissati. Ma tutto ciò non potrà avere risultati concreti se continuerà a regnare il sospetto reciproco tra potere pubblico e cittadini. Le leggi dovranno dare spazio alle forme di autocertificazione, evitando di gonfiare di formalismi inutili le procedure amministrative. Nel contempo, i controlli nei confronti delle dichiarazioni false e dei tentativi di aggirare le leggi dovranno essere costanti ed efficaci. Altrettanto le sanzioni. Fidarsi come criterio base, ma controllare e individuare i furbi. Dentro e fuori le pubbliche amministrazioni.

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