La sfida di Renzi
Il fattore tempo

No, non molla. Matteo Renzi, reduce dalle nevi dell’Himalaya e dagli incontri con i businessmen internazionali, ha tutta l’intenzione di continuare nel suo frenetico moto guerrigliero che ha per obiettivo Giuseppe Conte e il suo governo. Che lui stesso, lo ricorderete, contribuì in modo decisivo a mettere in piedi con la piroetta che lo portò in quattro e quattr’otto dalla lotta senza quartiere ai grillini all’alleanza con i medesimi.

Ma questo governo a Renzi e ai suoi non piace: né sulla prescrizione né su tante altre faccende che peraltro restano tutte sui «tavoli» delle discussioni senza mai approdare ad una qualche vera decisione. Seduto sulle poltroncine bianche della vespiana «Porta a Porta», ieri sera Renzi è tornato a sparare sul quartiere generale annunciando per Pasqua una mozione di sfiducia individuale nei confronti del Guardasigilli Bonafede qualora insista nel portare avanti la sua riforma, ancorché modificata dall’ultima mediazione firmata dal presidente del Consiglio (detta «lodo Conte-bis», un arzigogolo giuridico-processuale che dovrebbe far contenti tutti e invece tutti scontenta in pari misura).

Questo è un atto di guerra, da parte dell’ex segretario del Pd: sfiduciare il capodelegazione del M5S al governo significa provocare la caduta del gabinetto. Di più, Renzi ha sfidato Conte a cancellare il reddito di cittadinanza, la legge-bandiera dei grillini, e a distribuire i soldi risparmiati alle aziende perché possano affrontare la bassa congiuntura economica che il coronavirus potrebbe far virare verso la recessione. Altro dito nell’occhio dell’alleato, se così ancora lo si può chiamare.

Tutto ciò, da parte di Renzi, è condito con il beffardo interrogativo che già fu di Fini nei confronti di Berlusconi: «Che fai, mi cacci?». Già, perché Renzi è convinto che Conte non riuscirà a rimpiazzare i voti di Italia viva (che peraltro ha acquisito due nuovi parlamentari) con quelli di un gruppo di «responsabili» (ma loro preferiscono essere definiti «interlocutori») riuniti intorno agli ex ministri Paolo Romani e Gaetano Quagliariello, due ex del centrodestra, e all’Udc di Giorgio Poli, un veneto che fu il tesoriere del partito di Casini. Renzi fa il gradasso: «Non siete riusciti a sostituirci», dice nell’intervista a Vespa, rivolto a Conte e ai suoi. Deve esserne davvero certo, perché in realtà tutti aspettano che da un momento all’altro venga ufficializzata la nascita di un nuovo gruppo parlamentare con simbolo Udc che, anche solo con una decina di senatori, potrebbe rendere superfluo il sostegno di Italia viva. Aspettare per vedere. Quello che sicuramente non è riuscito è il tentativo di sgretolare il gruppetto renziano che anzi, come detto, ha reclutato due nuovi volontari.

Molto si parla dell’intesa sotterranea tra i due Mattei, Renzi e Salvini. Certo, entrambi hanno nel mirino Conte, tutti e due vogliono che il presidente del Consiglio venga eliminato dalla scena. Ma subito dopo gli obiettivi divergono: Salvini scalpita perché si vada al voto al più presto (ciò vuol dire da ottobre in poi, stante il tempo tecnico del referendum di marzo sulla riduzione del numero dei parlamentari) mentre Renzi ha tutto l’interesse ad allungare il brodo il più possibile. Salvini deve finalmente mettere a frutto quel 30% di voti che ha (prima che la Meloni gliene rosicchi un po’ troppi) mentre Renzi arranca sempre al di sotto del 5% e non può affrontare le urne: gli servono tempo, spazio, visibilità. Ciò appunto che si sta prendendo con questo inafferrabile gioco al rimpiattino che conduce nelle stanze del Palazzo. Ci si chiede: fin quando durerà? Giorgia Meloni una risposta l’ha data: durerà fino a quando il governo imploderà perché, come dice il proverbio, a forza di tirare, la corda si stucca.

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