La tregua in Libia
e l’Italia perdente

Non per essere esageratamente critici o prevenuti nei confronti dell’attivismo italiano sul caso libico. Ma non si può fare a meno di notare che ogni volta che Roma prova a costruire una «scena» dove possa giocare un ruolo da protagonista, succede che la vera partita si svolge altrove. È successo qualche giorno fa quando Palazzo Chigi ha provato il «colpaccio», ma senza fortuna, di riunire sotto lo stesso tetto sia il capo del governo riconosciuto in sede internazionale Al Serraj che il suo avversario generale Haftar.

Non solo il presidente legittimo di Tripoli, indispettito dall’abbraccio di Conte ad Haftar ricevuto addirittura prima di lui, si è rifiutato di atterrare a Roma nel suo viaggio da Bruxelles alla madrepatria. Ma nelle stesse ore nella lontana Istanbul si materializzava la vera novità del giorno: turchi e russi annunciavano la tregua tra le parti libiche.

E ieri è accaduta la stessa cosa. Mentre Conte si trovava alla corte di Erdogan, a Mosca – ospiti di Putin – i due libici discutevano della tregua già annunciata dai loro rispettivi protettori russi e turchi, sempre più i veri padroni del Mediterraneo centrale. La tregua scritta di pugno dal ministro degli Esteri russo Lavrov e dal suo collega del Bosforo è stata firmata da Serraj mentre Haftar ha preso tempo fino a questa mattina: il generale non parrebbe arretrare dalle posizioni conquistate, ma Putin gli ha già detto che se vuole ancora contare sull’appoggio del Cremlino deve sbrigarsi a mettere la firma su quel documento. Conclusione: i riflettori ieri si sono accesi a Mosca mentre noi eravamo a Istanbul (e Di Maio, in mancanza di meglio, a Tunisi). E due.

Come interpretare queste sfasature? Con una constatazione semplice e amara. Sulla Libia l’Italia e, in parte l’Europa, hanno perduto la partita. Noi che eravamo il tradizionale partner della Libia, nostra ex colonia e che, unico Paese al mondo, nonostante il conflitto civile in corso siamo riusciti a mantenere aperta l’ambasciata di Tripoli come avamposto della diplomazia, proprio noi sembra che non riusciamo più a toccare palla. E così Di Maio e Conte devono limitarsi a recitare generici inviti al dialogo e alla collaborazione e ad agganciarsi alla labile «iniziativa» europea. Che per il momento non si è vista e che, se si materializzerà nei prossimi giorni alla conferenza di Berlino (e non di Roma, attenzione) convocata dalla cancelliera Merkel, sarà solo sulla base dell’intesa in via di sigla a Mosca. L’Italia allora lancia all’idea di costruire una forza di interposizione in Libia costituita da forze di Paesi europei sotto l’egida dell’Onu alla stregua della missione Unifil in Libano. Purtroppo lo scetticismo sulla possibilità concreta che questa idea diventi realtà è più che diffuso, se non altro perché le reazioni dei partner Ue sono state più che tiepide: non si mandano a cuor leggero uomini in divisa nell’inferno libico, tantomeno come «forza di interposizione», che vuol dire con la possibilità di combattere se necessario. Non a caso ieri Erdogan a Conte ha detto senza troppi giri di parole che una missione Onu è sì possibile, ma solo come un corpo di «osservatori», e tutti sanno a quali atroci contraddizioni sono stati esposti negli ultimi decenni gli inermi osservatori delle Nazioni Unite, testimoni impotenti dei peggiori massacri. Quindi l’idea italiana che sembrava brillante è abbastanza campata per aria.

C’è chi ha scritto giustamente che non si può imputare alla modesta gestione attuale della nostra politica estera gli errori che l’Italia ha commesso sulla Libia. È vero. Come è vero che i due pesi massimi Erdogan e Putin, la cui azione è tanto più efficace quanto più scevra da remore e controlli democratici, ormai sono i padroni del campo ed è improbabile che possiamo essere noi a ridimensionarli. La speranza è ancora una volta l’Europa: sempre che esista come soggetto unitario e attivo, naturalmente.

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