La violenza in America
Una ferita mai curata

Chi ha buona memoria ricorda bene la frase «I can’t breathe!», non riesco a respirare. Furono le ultime parole di Eric Garner, un nero strangolato a New York, nel 2014, dal poliziotto che cercava di arrestarlo. Stesse parole e stessa morte di George Floyd, assassinato tre giorni fa a Minneapolis dal poliziotto che per nove minuti gli ha schiacciato il collo con il ginocchio. Questo per dire che nella rivolta che ora sconvolge gli Usa si distinguono due piani. Il primo è quello dell’occasione, della cronaca, del fatto specifico. Che comprende, anche, una buona dose di speculazione politica. Quando minaccia di sparare sui saccheggiatori, Donald Trump sa di rivolgere un messaggio «legge e ordine» che a una parte non secondaria d’America giunge più che gradito. E sa, anche, di poter approfittare della relativa debolezza del rivale Joe Biden che, dopo aver passato otto anni alla Casa Bianca come vice di Barack Obama, non può permettersi di dare lezioni sul tema delle violenze della polizia (è incredibile che un sadico come l’agente Derek Chauvin fosse ancora in servizio, visto il suo curriculum) e del razzismo ai danni dei neri.

Gli otto anni presidenziali di Obama, primo presidente nero nella storia degli Usa, furono infatti punteggiati di episodi analoghi a quello di George Floyd. Di Garner abbiamo detto. Un mese dopo, un poliziotto di Ferguson (Missouri) uccise a colpi d’arma da fuoco Michael Brown, un diciottenne disarmato che non aveva ubbidito all’ordine di fermarsi. A carico del poliziotto non fu preso alcun provvedimento. Nel 2016, un altro agente uccise due persone a Baton Rouge (Louisiana) e il video dell’assassinio infiammò l’America.

Il giorno dopo a Dallas (Texas), cinque agenti furono uccisi da un cecchino, in risposta ai fatti di Baton Rouge. Obama, com’era suo costume, fece molti bei discorsi ispirati alla tolleranza e al rispetto della vita. Ma, come si vede da quanto sta ora succedendo, nemmeno lui riuscì a cambiare le cose. Le ragioni sono molteplici. Intanto, il presidente ha poca influenza concreta sulle forze di polizia, che dipendono dai poteri locali. E poi c’è la quantità incredibile di armi da fuoco che circola tra i civili americani: quasi 400 milioni di «pezzi» (il 46% di tutte le armi in possesso di civili nel mondo) per una popolazione di 330 milioni di persone, il che testimonia di un’endemica e mai curata inclinazione all’offesa o alla difesa violenta. Ma ad agire, con le aggravanti di cui abbiano appena detto, c’è soprattutto il peso di un’integrazione razziale mai completamente realizzata. I dati, in questo caso mai aridi, parlano fin troppo chiaro. I bianchi sono il 72,4% della popolazione e i neri il 12,6%. Ma nel 2020, finora, le forze di polizia hanno ucciso 42 bianchi e 31 neri, una sproporzione evidente ma che si inserisce in un quadro più che anomalo: nelle prigioni federali, per un bianco ci sono cinque detenuti neri; il tasso di incarcerazioni tra i bianchi è di 393 ogni centomila, tra i neri sale a 2.531; tra il 1977 e il 2020 sono stati eseguite 847 sentenze capitali ai danni di detenuti bianchi e 517 ai danni di neri. Non c’è alcuna proporzione.

Si tratta dunque di un problema che affonda le sue radici nel tempo e che solo con il tempo potrà essere curato. È però chiaro a tutti che le belle parole alla Obama o le minacce alla Trump possono rendere in termini di carriera politica ma portano scarsi contributi alla risoluzione di questo vero dramma sociale. Occorrono riforme radicali almeno al commercio delle armi, all’amministrazione della Giustizia e all’organizzazione delle forze dell’ordine per ottenere qualche risultato. E purtroppo l’esperienza dimostra che la struttura federale degli Stati Uniti d’America, oltre al lavoro incessante delle lobby, è un ostacolo potente a questo tipo di impresa.

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