La vittoria del premier
non guarirà il governo

A quel che si sa, all’avvio di un tormentato e laborioso weekend, Giuseppe Conte lunedì e martedì dovrebbe avere i voti sia alla Camera che al Senato per andare avanti, sostituendo Italia Viva nella maggioranza con gruppi di «responsabili» (o «costruttori» come si ama dire oggi). La quota da raggiungere al Senato – il ramo parlamentare con numeri più problematici – è di 161 «sì», equivalente alla maggioranza assoluta dei componenti, senatori a vita compresi. Le ultime notizie dicevano ieri sera che l’obiettivo non è stato ancora raggiunto ma che, con un ultimo sforzo ha buone probabilità di essere toccato. Inoltre vari costituzionalisti sono all’opera per dimostrare che per approvare le risoluzioni favorevoli al governo che saranno presentate non sarà necessaria la maggioranza assoluta dei componenti ma quella relativa, cosa evidentemente molto più agevole da ottenere.

Mattarella ha chiesto a Conte di dimostrargli che la «nuova» maggioranza non è formata da sparsi peones arruolati per strada, ma da veri gruppi parlamentari. Ecco perché a Palazzo Madama si sta lavorando per costituire un gruppo intorno agli eletti all’estero del Maie aggregando tutti coloro che vogliono non solo sostenere oggi il governo ma un domani far parte di un eventuale «partito di Conte» (gira già il nome: «Insieme»).

Come si capisce, in questi momenti fervono le trattative più riservate e, come sempre accade in queste circostanze, si rifanno vivi vecchi lupi di mare del gioco parlamentare come Bruno Tabacci, Clemente Mastella, Paolo Cirino Pomicino, tutti impegnati a dare una mano a Palazzo Chigi a scavallare l’ostacolo e ad andare avanti nonostante lo strappo di Renzi. Nei confronti del quale si diffonde l’impressione che (anche) questa volta si sia sparato sui piedi. Già, perché se Conte superasse l’ostacolo con l’arruolamento di un gruppo di volontari, i 18 senatori di Italia Viva, finora determinanti, diventerebbero ininfluenti: questo non gioverebbe alla compattezza di un partito che, col 2-3% dei consensi elettorali, alle prossime elezioni non potrà garantire la rielezione a nessuno o quasi. Ecco dunque che Conte e Zingaretti puntano a provocare una frantumazione di Italia Viva: chi non ha condiviso la decisione di Renzi di rompere con il governo (il socialista Nencini è solo il più schietto nel dirlo in pubblico) potrebbe essere tentato di fare fagotto, magari di tornare nel Pd per chiedere un posto in lista.

A giudicare dalle parole così sprezzanti e ultimative utilizzate dai democratici nei confronti del loro ex segretario («inaffidabile per qualunque soluzione»), sembrerebbe che a via del Nazareno vogliano regolare una volta per tutte i conti con Renzi spingendolo ai margini della scena e magari, domani, anche al di fuori di essa. Forse è anche per scacciare questa sgradevole sensazione che qualche renziano ha cominciato a mandare segnali di riconciliazione.

Se però davvero lunedì e martedì si verificherà che la sortita renziana è stata inutile e anzi addirittura suicida nella sua incomprensibilità, e che Conte ha vinto la sua partita, questo non vuol dire che il governo avrà risolto tutti i suoi problemi, le sue contraddizioni, la debolezza di una premiership abile soprattutto nel rinvio delle decisioni e nell’accentramento del potere, la mancanza di un progetto: tutte considerazioni che finora vedevano Zingaretti pensarla allo stesso modo di Renzi, guarda caso. Non solo: la precarietà degli ultimi mesi, coperta dall’emergenza pandemica ed economica, non potrà che accentuarsi dopo che si sarà composta una esile maggioranza di fatto raccogliticcia, esposta a qualunque ricatto personale o lobbistico. Perché anche Conte ha ormai interiorizzato una vecchia regola della politica: un conto è vincere, un conto è governare. E adesso l’Italia ha più che mai bisogno di essere governata.

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