L’autogol in Europa
e Pd diviso sulla Libia

Salvini, dal suo punto di vista, ha qualche motivo nel sentirsi amareggiato per come s’è conclusa la prima parte del pacchetto di nomine ai vertici europei. Lo smacco più serio l’ha subito con l’elezione del democratico Sassoli alla presidenza dell’Europarlamento e la contemporanea bocciatura della leghista Mara Bizzotto alla vice presidenza andata al grillino Castaldo. Nella stagione del «prima gli italiani», l’unico incarico istituzionale per un nostro connazionale non è stato il risultato dell’impegno del nostro governo, che a Bruxelles si rinchiude in un limbo ballando una musica suonata da altri. Salvini (con Conte nella fase iniziale dei negoziati) ha giocato a fianco dei Paesi di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia), impallinando il socialista Timmermans alla guida dell’esecutivo Ue per poi essere scaricato al momento giusto dall’amico Orban.

Conclusione: la maggioranza che governa l’Italia aveva promesso che avrebbe spazzato via l’Europa comunitaria e invece i fatti dicono che l’asse franco-tedesco è vivo e vegeto, lotta insieme a noi, l’arcinemico Macron può cantare vittoria e al posto di un buon sostenitore del nostro Paese (l’olandese Timmermans) abbiamo la tedesca Von der Leyen, un’incognita in tema di rigore finanziario.

I sovranisti non hanno rappresentato un’alternativa concreta, non riuscendo pure a mettere in campo una contro-narrazione, salvo dover riconoscere che inseguire l’obiettivo di recuperare sovranità nazionale s’è rovesciato esattamente nel suo opposto. Restiamo un Paese sotto osservazione, vigilato speciale sul piano politico e su quello dei conti pubblici: la procedura d’infrazione è stata evitata, segno che l’Europa non è poi così matrigna come afferma una certa strategia della tensione comunicativa, ma gli esami sono stati rinviati all’autunno e il tutto ci costa l’equivalente di una manovra correttiva. In attesa di sapere se dovremo rimpiangere i vari Juncker e Moscovici, resta da riempire la sola casella a nostra disposizione: quella del commissario alla Concorrenza, la cui candidatura è in quota Lega e riguarda il riluttante Giorgetti. Un passaggio non scontato, perché serve il voto dell’Europarlamento.

Una scelta da fare insieme alla nomina del ministro per i Rapporti con l’Europa, il cui interim è in mano a Conte e anche qui si tratta di vedere se il governo sceglie un approccio amichevole o di sfida, fin dove possono spingersi i margini di autonomia conquistata dal premier e dai ministri Tria e Moavero, protetti dallo scudo difensivo del Quirinale. In tutte queste sequenze, che chiamano in causa la collocazione europea dell’Italia e di una maggioranza felpastellata forte a Roma ma non a Bruxelles, era lecito attendersi qualcosa di più e di meglio dal Pd, visto che la riaffermazione del tandem franco-tedesco significa continuità europeista e, si spera, un cambio di passo. Invece, dal principale partito d’opposizione un profilo basso, lasciando parlare l’infinito regolamento di conti interno. Il Pd continua a guardare indietro, al passato che non passa, e non avanti. Il tema questa volta è la Libia e il dibattito interessa il rifinanziamento delle missioni internazionali in un Paese in fiamme e ormai fuori controllo. Da tre mesi Tripoli è assediata dalle milizie del generale Haftar, signore della guerra in Cirenaica: doveva essere un blitz e invece s’è trasformata in una guerra civile con più di mille morti. La Libia, con tutto quel che significa per l’Italia (difesa dei diritti umani, sbarchi, stabilità del Mediterraneo), sembra uscita dall’agenda diplomatica di Palazzo Chigi, mentre divide i democratici. L’attacco di Renzi, non nuovo comunque sorprendente e per così dire «da sinistra», contro Gentiloni e Minniti è indicativo: abbiamo perso, ha scritto l’ex leader, perché siamo stati allarmisti sui migranti e pavidi sullo ius soli. In realtà il piano geopolitico di Minniti, che ha vissuto una sua solitudine e che non ha mai convinto del tutto il partito, cercava di tenere insieme umanità-libertà-sicurezza e va visto come il primo tentativo razionale di controllo dei flussi migratori nella fase di maggior crisi. Un progetto in parte fallito, lacunoso sul piano umanitario e che s’è fermato al primo stadio, quello del blocco delle partenze dei barconi, perché il governo di Tripoli riconosciuto dalla comunità internazionale non ha mantenuto l’impegno per i diritti umani ed è scivolato in un’anarchia tribale. Ma il livello della polemica dice anche di una certa precarietà dei nuovi equilibri di Zingaretti, l’assenza di una sintesi riconoscibile al di là di una melassa che intende abbracciare tutto. Un partito unito nel contestare Salvini, ma non oltre. Se questo governo rischia di isolarci dal concerto europeo, la naturale predisposizione del Pd a ripiegarsi su se stesso accentua la distanza fra una dirigenza autoreferenziale e il corpo vivo di una società che soffre, orfana di un baricentro politico.

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