Lavoro, conquiste
a rischio Far West

«La memoria non può attenuare il dolore, ma trasmette un richiamo all’unità intorno ai valori più importanti della convivenza. Anche grazie a questa unità e ai principi democratici il nostro popolo è stato capace di sconfiggere il terrorismo e l’eversione». Con queste incisive espressioni il presidente Mattarella ha voluto ricordare l’uccisione di Massimo D’Antona, avvenuta 21 anni fa. Un giorno, il 20 maggio, significativo non soltanto per il mondo del lavoro, ma ancor più per la democrazia italiana. Le conquiste dei lavoratori trovarono nello «Statuto» sancito dalla legge 300 del 1970 il loro traguardo. Un baluardo di civiltà giuridica e sociale, fortemente voluto da uomini del calibro di Gino Giugni e Carlo Donat-Cattin, persone di orientamenti politici diversi, ma accomunati dall’idea che la «democrazia economica» dovesse essere fattore non meno importante della democrazia politica nelle dinamiche sociali e che essa dovesse fondarsi sulla certezza dei diritti dei lavoratori.

Massimo D’Antona era un uomo mite, un giurista e professore universitario che rifuggiva dalla notorietà. Ebbi modo di conoscerlo alla Scuola superiore della pubblica amministrazione nella quale insegnavamo entrambi. Pur mantenendo il costante rapporto con l’università egli aveva scelto di insegnare nella Scuola deputata a selezionare e formare i quadri dell’amministrazione statale. Un compito che, a suoi occhi, non era meno importante dell’insegnamento accademico. Schivo per natura, D’Antona aveva con tutti un tratto amichevole, sempre disposto al colloquio.

A ben vedere, erano proprio le persone di quel tipo a rappresentare in quegli anni l’ostacolo maggiore per l’estremismo di sinistra, che di sinistra aveva ben poco. Aver accettato l’incarico di consigliere del ministro del Lavoro fu tra la cause che indirizzarono le «nuove Brigate rosse» a inquadrarlo tra quelli da eliminare. Del resto, per i suoi assassini risultò essere un ben facile bersaglio. Non aveva scorta o guardaspalle, faceva la normale vita di un professore. Circondarlo e abbatterlo con armi da fuoco non fu difficile per coloro che lo avevano preso di mira. Massimo D’Antona e Marco Biagi, ammazzato il 19 marzo di tre anni dopo mentre tornava a casa in bicicletta, furono i bersagli simbolici della delirante strategia brigatista. Una fase storica buia del nostro Paese nella quale uno sparuto manipolo di esaltati pretendeva di agire in nome dei lavoratori, ma dai quali (come insegnò il sacrificio di Guido Rossa) fu visto come un pericolo per la democrazia. Un periodo dal quale siamo usciti proprio perché il nostro Paese seppe tenersi unito, come ricordava ieri l’altro il Capo dello Stato, facendo leva sui valori costituzionali della democrazia.

Gli scenari dell’oggi consegnano una realtà nella quale il lavoro umano - nelle sue molteplici modalità - è alle prese con un sistema dominato dall’incertezza e scosso da una crisi incombente. La pandemia, anche se in misura diversa tra i singoli Stati, ha appesantito una situazione già particolarmente aggrovigliata, nella quale la precarietà del lavoro è divenuta la cifra costitutiva ed altamente tossica di un capitalismo selvaggio, permeato dall’ottica del guadagno a tutti i costi. Un mondo sul quale si staglia l’ombra fosca di diseguaglianze sociali sempre più profonde e che sembra totalmente immemore delle conquiste secolari dei lavoratori di tutto il mondo. Ragionare, nell’orizzonte del dopo coronavirus, di lavoro implica porsi necessariamente molte domande sugli strumenti di regolazione dei mercati, i quali - se lasciati senza briglie e senza regole - rendono il mondo del lavoro un Ear West nel quale prevale sempre la legge del più forte. Rivalutazione dei diritti, strumenti efficaci di controllo pubblico sulle condizioni dei lavoratori, socialità dell’impresa privata, sono alcune delle questioni da mettere sul tappeto nella definizione di un «nuovo Statuto» dei lavoratori. A cinquant’anni da quello che oggi in Italia solennizziamo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA