L’economia che rallenta,
i «numerini» da sistemare

Eccoci qui, dritti al punto. I dati sul Pil e sull’occupazione resi noti ieri dall’Istat non sono ancora l’inizio di una «decrescita infelice», come l’ha definita qualcuno: è oggettivamente presto per dirlo. Sono però l’indizio di un rallentamento e non c’è di che compiacersene. Anche perché i segnali di debolezza sono tutti interni, con una riduzione sia dei consumi finali sia degli investimenti, mentre i rapporti con l’estero, nonostante le turbolenze commerciali sui mercati internazionali, continuano a viaggiare in territorio positivo. Ricapitoliamo dunque i «numerini» che più di altri sollevano qualche preoccupazione. Nel terzo trimestre, il Prodotto interno lordo è sceso dello 0,1% rispetto ai tre mesi precedenti: è la prima volta dopo sedici trimestri positivi, ovvero dalla metà del 2014, e si mettono così in dubbio i risultati complessivi attesi a fine anno e quelli per il prossimo. Inoltre, il tasso di disoccupazione è salito al 10,6%, ovvero sono aumentate le persone che cercano attivamente un lavoro, mentre quelle che hanno un’occupazione sono rimaste sostanzialmente stabili.

All’aumento dei contratti fissi salutato con soddisfazione dalle parti di Palazzo Chigi - il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, si è affrettato a dire che «il Decreto Dignità funziona» -, è corrisposta infatti una diminuzione dei contratti a termine, disincentivati dalla citata legge, e dei lavoratori autonomi.

Sembra difficile dunque riuscire a trovare motivi di consolazione nelle ultime statistiche sull’economia del Paese, che fanno il paio con quelle locali anticipate nei giorni scorsi per la nostra provincia che, pur restando un’isola felice, vede risalire il tasso di disoccupazione dal 4,2% al 5%.

Tutto questo mentre stiamo navigando ancora a vista, in attesa di capire in questi giorni se, quanto e come saranno ritoccati i contenuti della Manovra all’esame del Parlamento per evitare che l’Europa apra una procedura d’infrazione contro di noi, con conseguenti tensioni finanziarie che non farebbero altro che ricadere sulle tasche dei contribuenti risparmiatori.

Dopo tante promesse su reddito di cittadinanza e pensioni, non sarà semplice aggiustare il tiro, anche se varie scuole politiche del Belpaese offrono ampi repertori di acrobazie ed equilibrismi. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, leghista dalle molteplici prese di posizione discutibili, ma al quale l’esperienza politica certo non fa difetto, ha già cominciato a dire che il deficit al 2,4% non è scritto nei «dieci comandamenti». La disponibilità al dialogo ha allentato le fibrillazioni in Borsa e il tanto vituperato spread, ignorato quando sale, ora che è sceso di qualche punto viene rispolverato pure nelle analisi pentastellate.

Di certo alle parole dovranno seguire fatti credibili e Bruxelles non aspetterà oltre il minimo: il commissario per gli Affari economici, Pierre Moscovici, pur mostrando ottimismo sul dialogo in corso, ha ricordato che «non c’è tempo da perdere» e, soprattutto, che resta necessario «ridurre il deficit e il debito, anche perché non crediamo che questo possa portare un aumento dell’occupazione». Ecco, a proposito di deficit e debito, problemi di lunga data, c’è un «numerino» che viene spesso trascurato e che invece dovrebbe far riflettere.

Il nostro avanzo primario è ampiamente positivo. Questo significa che la contabilità pubblica del Paese incassa più di ciò che spende, prima degli interessi da pagare appunto sul debito pubblico. Il saldo è significativo e lo è da decenni: 24,4 miliardi solo nel 2017. I conteggi sballano e vanno in rosso dopo gli interessi che dobbiamo versare su un indebitamento esorbitante di oltre 2.300 miliardi di euro. Non possiamo permetterci di peggiorare la situazione, togliendo risorse ad altre spese e soprattutto agli investimenti. Non ce lo meritiamo, davvero.

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