L’eredità di Draghi
tornare normali

Alla fine del suo mandato di Presidente della Banca Centrale Europea il 31 ottobre prossimo, Mario Draghi passerà alla storia come l’artefice di una politica monetaria fortemente aggressiva e non convenzionale messa in campo per arginare la crisi del debito pubblico scoppiata nell’estate del 2011. Sarà ricordato per il suo discorso del luglio del 2012 in cui pronunciò l’ormai famoso «whatever it takes» che voleva dire: faremo tutto quanto necessario per impedire il default dei titoli di stato e lo sfaldamento dell’euro. E lo fece.

Lui, professore e studioso rigoroso, uomo fedele alle istituzioni, prima come direttore generale del Tesoro e poi come Governatore della Banca d’Italia, vara e conduce la politica monetaria più eterodossa che si sia mai vista, spingendo i tassi di interesse addirittura sotto lo zero e avventurandosi, sono sempre parole sue, in «territori inesplorati». Ancora, lui, uomo delle istituzioni, attribuisce un carattere fortemente personalizzato al ruolo di Presidente della Bce perché pone l’accento sulla credibilità delle sue parole, sul fatto che a ogni dichiarazione resa corrisponderà un comportamento coerente ed efficace. In questo ruolo, il professor Draghi ha dato lustro al nostro Paese, contrastando perfino il sospetto dei suoi avversari che le sue scelte fossero volte a favorire la sua Italia.

Ma come giudicherà la storia economica la gestione Draghi della Bce? È difficile dirlo oggi, ma si può sin d’ora rilevare che non fu una gestione monocratica ma collegiale. Proprio le palesi manifestazioni di dissenso di alcuni membri del comitato esecutivo, per lo più tedeschi, dimostrano che c’era un confronto, un dibattito e alla fine una decisione a maggioranza. E si può anche aggiungere che, a quanto sembra di capire, la Bce di Christine Lagarde non muterà l’indirizzo in essere.

Sicuramente resterà a merito di Draghi aver saputo contrastare la profonda crisi del 2011-2012 che aveva portato sull’orlo dell’insolvenza diversi stati europei. Erano gli anni in cui lo spread dei Btp superò i 500 punti e sembrava avviato su una china inarrestabile dagli esiti imprevedibili. La Bce rispose con gli strumenti a sua disposizione, aprendo un ombrello di protezione fatto di ingenti acquisti di titoli, di abbassamento dei tassi di interesse e di abbondante immissione di moneta. Agì proprio come il pompiere che butta acqua copiosa sull’incendio. La manovra riuscì, gli spread sui titoli di stato rientrarono gradualmente, le condizioni dei sistemi finanziari si normalizzarono. Qualcuno dice che venne privilegiato il salvataggio delle banche e non si pensò a sostenere l’economia reale, cioè le famiglie e le imprese. È un’obiezione infondata: se non si fossero salvati prima di tutto i governi indebitati e poi i sistemi creditizi, sarebbero state proprio le famiglie e le imprese a pagare il conto più salato. Una crisi generalizzata avrebbe travolto tutti e quindi averla scongiurata è stato un beneficio per tutti. Impossibile dire per chi lo fu di più o di meno.

Quella politica d’emergenza è proseguita a lungo e dura a tutt’oggi. Qui sta la possibile critica e il problema che ancora abbiamo di fronte. Quali sono i costi, magari ancora occulti, di questa politica? Possiamo pensare all’indebolimento del sistema bancario, alla mancata remunerazione del risparmio, all’accondiscendenza indiretta alle politiche di spesa pubblica. Gestire un periodo di sette anni con strumenti straordinari non è fisiologico. E infatti il problema che Draghi passa a Lagarde è proprio questo: come ritornare alla normalità abbandonando scossoni degli strumenti non convenzionali. Un’indicazione il Presidente uscente l’ha data proprio giovedì: ora tocca ai governi fare la loro parte, adeguando la politica fiscale a una politica monetaria meno accomodante.

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